giovedì 19 gennaio 2012

VENERDI' DI PASSIONE

VENERDI' DI PASSIONE

«Dolore, rabbia, gelosia, melanconia, disperazione, ansia di lottare, sete di dimostrare la propria insostituibilità perfino un bisogno di vendetta che giunge all'annientamento si susseguono nel rapporto con l'amata perduta, con la quale, nell'esilio, si convive in maniera più intima, più appassionata e più incessante che mai. E il sentimento più profondo di tutti è la nostalgia, la divorante nostalgia del ritrovamento e della riconquista».
                                       Johannes Urzidil, L'AMATA PERDUTA.[1]        
 

E poi presi il treno e andai in Francia a trovare Amanda. E fu lì che lei mi lasciò. Già, l'avevo capito, quel viaggio era cominciato sotto i peggiori auspici. Quando ero andato alla stazione di Pisa per fare il biglietto con la carta verde, perché allora avevo la verde età di viaggiare con la carta verde, la bigliettaia non capiva dove dovevo andare. Io glielo avevo detto che dovevo arrivare a Beaune, in Francia, ma forse per la mia pronuncia sbagliata, quella mi rispose «Bonn è in Germania». Lo so che Bonn è in Germania, fra l'altro allora era ancora la capitale della Germania Occidentale, perché c'era ancora la Germania Occidentale e, anche se alle ballodole, il muro di Berlino e la Germania Orientale e Pankow e Honecker e tutto il resto.
Lo so che Bonn è in Germania, ma io parlo della città in cui fu ammesso al Tempio l'ultimo Gran Maestro[2]. Inutile. «Quale Gran Maestro?».
Le dovetti sillabare BEAUNE, così com'è  scritto, allora capì.
Sul treno i Francesi erano tutti molto gentili nello spiegarmi gli orari ferroviari e quali treni avrei dovuto prendere per Beaune, però quella gentilezza mi sembrava finta e poi io sbagliai lo stesso e a Lione scesi alla seconda fermata anziché alla prima e così dovetti tornare indietro. E poi non mi riusciva nemmeno telefonare, perché dopo avere inserito la carta, sull'apparecchio veniva scritta un'informazione in francese che io non capivo e capii soltanto più tardi che bisognava chiudere la fessura con una gabbietta. Sul treno da Lione c'erano dei ragazzi che facevano casino nel mio scompartimento, ma mi risposero gentilmente quando domandai loro se la stazione successiva fosse quella di Beaune. Al tassista che mi portò al Foyer des Jeunes Travailleurs lasciai la mancia e lui mi dette un suo biglietto da visita. Davanti al foyer Amanda stava parlando con un ragazzo lungo e secco con dei brutti capelli biondi che sembravano una scopa e lo baciò sulle guance quando si salutarono. In Francia tutti si baciano per salutarsi anche se non si possono vedere e questo non mi piace neanche un po', perché mi ricorda il gesto di Giuda con Nostro Signore. E poi avevo paura che quello fosse il modo di Amanda di dire le cose, sapevo che se ad esempio mi avesse voluto dire che amava un altro, ci si sarebbe fatta trovare a letto insieme. La abbracciai ed appena entrato nel foyer l'uomo che faceva il portinaio si preoccupò di farmi sapere che non potevo dormire lì, ma chi se ne frega, tanto noi avevamo già prenotato una camera d'albergo.
E poi ruppi anche la vigilia nera del Venerdì Santo, perché Amanda in un ristorantino mi fece mangiare dei toast col prosciutto cotto. Io avrei voluto non mangiarli, ma avevo una fame cane, dato che per l'ultima volta avevo mangiato ventiquattro ore prima, avendo viaggiato tutta la notte e la mattina e il pomeriggio. Poi nel centro storico della città ci fu la processione del Venerdì Santo e io ci volli andare. Però là, invece di portare la statua di Gesù morto con la corona di spine e quella della Madonna con il pugnale conficcato nel cuore come si fa al mio paese, gli uomini portavano una trave lunga quasi dieci metri che doveva simboleggiare la croce. In chiesa si dicevano le cose che si dicono da noi, come Signore pietà, Cristo pietà e simili, solo in francese, però invece delle panche c'erano tante sedie, e poi dopo la funzione la gente si fermava sul sagrato a chiacchierare proprio come al mio paese, solo che lì non capivo un'acca, per fortuna.
E poi andammo all'albergo ed anche quello somigliava a una chiesa, con un tetto molto a punta, la cui facciata anteriore era contornata di lampadine. Dissi ad Amanda «Solo tu potevi trovare un albergo fatto come una chiesa» e lei mi rispose «Già, solo io lo potevo trovare», perché anche lei sapeva di esagerare, a volte, con la religione. Una volta, quando era in Italia, cambiando i canali dell'autoradio aveva trovato una stazione dove tutto il tempo dicevano preghiere e recitavano rosari e cantavano laudi al Signore e alla Madonna eccetera. Allora io le dissi «Solo tu potevi trovare questo canale» e lei mi rispose «Già, solo io».
In camera nostra mi spogliai, mi misi il pigiama nuovo e andai a letto. Alla TV c'era un western, ma era in francese e i cowboys mi sembravano un po' finocchi a parlare in quel modo, con tutte quelle erre mosce e tutti quegli «Ollallà» eccetera. Anche Amanda si spogliò e venne a letto. Ancora non lo sapevo, ma quella fu l'ultima volta che vidi i suoi seni e la sua pancia, la sua schiena e le sue chiappe e tutto il resto.
Siccome era Venerdì Santo, avevo deciso dentro di me che non bisognava fornicare o commettere atti impuri, come di solito si faceva a letto, anche se erano due settimane che non ci vedevamo. Se però riuscii a dominarmi da sveglio, il sogno lasciò che Amanda venisse a me, mi guardasse e dicesse «Che bel corpo, viene quasi voglia di inginocchiarsi...». E si inginocchiò, dio mio se si inginocchiò. Andò a finire sulla moquette, come quella volta all'Hotel Ibis di Londra. 
La mattina, mentre io stavo ancora a letto, Amanda fece la doccia, poi, uscita con l'accappatoio, mi disse «Vai a fare la doccia». Io andai, e mentre mi lavavo sentivo che in camera Amanda zompava come un'ossessa per rivestirsi prima che io uscissi dalla cabina. Io mi spicciai, ma quando uscii lei era già completamente vestita e allora capii tutto. O forse era solo un caso. Non c'era niente di male. Anzi. E poi quando ero partito da casa avevo pensato che bisognava farla finita e mi ero anche preparato la frase: e me la ero anche ripetuta quando stavo sul treno fermo a Cecina e non avevo ancora preso quell'altro treno a Pisa né quell'altro a Torino né quell'altro a Lione. E poi il giorno prima, nella camera di Amanda al foyer, dopo che le avevo fatto vedere la maglietta che Fele mi aveva portato dalla Grecia, con Penelope sul triclinio e i primi versi dell'Odissea «Andra moi ènnepe Mousa polytropon os mala polla...», lei era andata in bagno e io di nascosto avevo letto la sua agenda e c'era scritto che un giorno era andata a Liverpool con un ragazzo che non mi ricordo come si chiamava. E dopo, mentre andavamo in centro glielo avevo domandato se era stata a Liverpool con un ragazzo e lei mi aveva risposto di sì. Le avevo anche domandato perché non me lo avesse detto e lei mi aveva risposto che pensava che mi sarei arrabbiato.«Mi arrabbio ora perché non me lo hai detto», ma tanto sapevo che mi sarei arrabbiato sia che me lo avesse detto sia che non me lo avesse detto, come fece. E allora uscimmo dall'albergo e mentre camminavamo svelti verso il foyer per fare colazione dissi ad Amanda «Forse è meglio che non ci vediamo più». 
E già mi immaginavo che lei mi avrebbe detto «Perché?» oppure «Sei pazzo?» o simili oppure si sarebbe messa a piangere così che avrei potuto fare l'angelo consolatore. 
E invece, dio come mi sbagliavo!, Amanda mi rispose «Non lo so, forse hai ragione». E il mio errore era stato proprio quello di dimenticare che lei mi dava sempre ragione perché pensava che fossi molto intelligente.
Nella camera del foyer Amanda mi domandò «Pensi davvero che sia meglio che non ci vediamo più?». Pensando di no risposi «Sì» ed ella disse «Anch'io». Io allora dissi che non pensavo così e Amanda mi rispose che lo sapeva. E poi la testa mi si fece confusa e mi si riempì di migliaia di ragioni per cui avremmo dovuto vederci ancora ed esse erano talmente forti che bastava che gliene dicessi alcune, perché Amanda si convincesse che sbagliava. Ma alla mia bocca arrivavano soltanto le parole «Perché? Perché?» e «Non devi. Non devi», ripetute all'infinito e certo non potevo pretendere di convincerla con simili artifici retorici. Però non era facile parlare, perché piangevo come un capretto o vitello o simili e mi ci vollero quattro pacchetti di fazzoletti di carta per asciugarmi le lacrime e soffiarmi il naso, e alla fine dovetti asciugarmi le lacrime con la maglietta dell'Odissea con Andra moi ènnepe Mousa e Penelope sul triclinio.
E poi avevo anche mal di pancia perché non andavo di corpo da due giorni, sicché quando Amanda andò al gabinetto io mi avvicinai alla finestra aperta e soffiai fuori dal didietro l'aria di troppo che avevo in corpo. E vidi sulla mensola un libro che avevo regalato ad Amanda,Pinocchio di Collodi, e questo libro era tutto sgualcito e c'era anche stata strappata una pagina, chissà cosa ci avevano fatto con quella povera pagina.
E poi andammo a mangiare, ma quei ravioli in scatola scaldati non mi andavano né su né giù e al nostro tavolo c'era un olandese con la sua ragazza, bella ragazza fra l'altro, e lui mi restò subito antipatico perché voleva fare il simpatico (ottenendo l'effetto opposto, come ho detto). Si mangiò anche i miei ravioli, tanto sarebbe uno spreco, diceva lui, perché io ce li avrei lasciati.
E poi tornammo in camera a discutere, anche se non c'era quasi più niente da discutere e anche se invece di convincere Amanda a rimanere con me, fu lei che mi convinse che era meglio troncare. E tuttavia io continuavo a piangere e a dire «Perché? Perché?» e «Non devi. Non devi», mentre Amanda metteva e levava e girava nel registratore una cassetta di Simon & Garfunkel con canzoni tipo Mrs. Robinson Sounds of silence e quella roba lì. E io ancora: «Perché? Perché?» e «Non devi. Non devi».
E poi cambiai sinfonia e finalmente dissi «E' meglio che vada via. Vado alla stazione» e Amanda mi disse «Puoi restare anche stanotte». Sì, ma che ci restavo a fare? Così andai alla stazione e lei mi accompagnò per informarsi sugli orari dei treni. Ci baciammo per l'ultima volta e salii sul treno. E fu allora che mi accorsi che Amanda si voleva sbarazzare di me, perché mi disse che avevo il treno alle sei di sera e invece lo avevo a mezzanotte, sicché dovetti aspettare sei ore alla stazione di Digione, tra delinquenti che scappavano e poliziotti che inseguivano, mentre degli ubriaconi russavano sui sedili della sala d’attesa. E poi sul binario era troppo freddo.
Il viaggio di ritorno fu tremendo. Prima mi fecero scendere dal vagone su cui ero salito perché dovevano staccarlo, poi, sulle Alpi, mi prese un freddo da cani, tanto che non mi sentivo più le gambe e mi ci dovevo picchiare con le mani per riacquistare la sensibilità. Poi venne un controllore e mi disse, in francese, che dovevo cambiare carrozza perché il riscaldamento era guasto.
Mi sembrò davvero di toccare il fondo, quel giorno che ha vinto il campionato per il più brutto della mia vita, e forse fu allora che mi venne in mente quella massima consolatoria e masochista che purtroppo mi avrebbe guidato nei mesi successivi, e questa era la massima di mia invenzione che diceva «Se nella merda ci fai uno scaracchio non è che peggiori la situazione».
E poi avevo ancora il mal di pancia che non mi voleva passare.
Giunse la mattina e, in piedi nel corridoio, osservai dal finestrino il panorama, soprattutto quelle cittadine nei dintorni di Genova, tipo Recco, Arenzano, Bogliasco eccetera. E il mal di pancia sempre lì con me, finché, arrivati nei pressi di Viareggio, cacai.
(1995)

[1] L'AMATA PERDUTA (Milano, 1982) è un «romanzo in racconti» pubblicato nel 1956 a Monaco di Baviera dallo scrittore praghese Johannes Urzidil (1896-1970).
[2]Jacques de Molay, l'ultimo Gran Maestro dell'Ordine dei Templari, l'ordine monastico - militare fondato da alcuni nobili francesi in Palestina nel 1118 con lo scopo di garantire la sicurezza delle strade in Terra Santa per i pellegrini cristiani. L'Ordine venne riconosciuto dal Concilio di Troyes nel 1128. Requisito per accedervi era la nobiltà della nascita. Primo Gran Maestro fu Hugues de Payns, che governò l'Ordine dal 1128 al 1136. Jacques de Molay venne ammesso nell'Ordine a Beaune nel 1265 e ne divenne Gran Maestro nel 1294. Nel 1307 il Re di Francia Filippo il Bello, che per varie ragioni, anche economiche, odiava i Templari, li accusò di praticare riti segreti, di rinnegare la croce, di adorare idoli diabolici e perfino di dedicarsi alla sodomia. Clemente V, il primo Papa avignonese, in un primo momento mostrò benevolenza verso l'Ordine, ma mutò atteggiamento quando molti Templari confessarono sotto tortura le colpe loro addebitate. In un nuovo Concilio, tenuto nel 1311 a Vienne, nel Delfinato, fu deliberata la soppressione dell'Ordine dei Templari. Jacques de Molay, che in un primo tempo aveva confessato le colpe ascrittegli anche in una umiliante udienza sul sagrato di Notre Dame a Parigi, in un ultimo sussulto d'orgoglio ritrattò la confessione e venne arso vivo sul rogo quello stesso giorno, 18 marzo 1314.

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