domenica 19 giugno 2016

Enrico Deaglio, Il raccolto rosso 1982 - 2010

Enrico Deaglio, Il raccolto rosso 1982 - 2010, Il Saggiatore

Quasi trent'anni di mafia - il che significa stragi, delitti, estorsioni - raccontati da Enrico Deaglio, un giornalista torinese che per meglio comprendere il fenomeno mafioso ha vissuto a lungo in Sicilia. Il libro è suddiviso in due sezioni, perché la prima era già uscita come libro autonomo relativamente al periodo 1982 - 1993, in sostanza dall'omicidio del generale Dalla Chiesa all'arresto di Totò Riina, dopo il biennio rosso di sangue 1992 - 1993.

Ma Deaglio racconta anche la genesi della scalata al potere dentro Cosa Nostra da parte dei corleonesi, guidati prima da Luciano Liggio e poi da Riina e Provenzano, con le stragi del 1981 che fanno piazza pulita della vecchia generazione dei boss mafiosi, tra i quali sopravvive soltanto «il papa» Michele Greco.

Deaglio stigmatizza qualche vecchio modo di dire che ha avuto successo per un periodo troppo lungo, con effetti indubbiamente deleteri. Un esempio: il dire che la mafia è un modo di pensare e di comportarsi, mentre è essenzialmente un'organizzazione criminale dedita all'ottenimento di un ingiusto profitto (oltre alla perpetuazione di sé stessa) attraverso sistemi illeciti.

Nell'appendice, curata dal giovane collaboratore di Deaglio, Andrea Gentile, è riportato anche il famoso monologo pronunciato dallo zio del protagonista (Paolo Bonacelli) nel film Johnny Stecchino (1991) di Roberto Benigni, dove vengono elencate le tre piaghe che affliggono la Sicilia: l'Etna, la siccità e il traffico. Magari fosse possibile che una risata seppellisse anche la mafia.



venerdì 3 giugno 2016

Giovanni Papini, Un uomo finito

Giovanni Papini, Un uomo finito, 1913

Solo per curiosità, mi piacerebbe sapere quanti ancora leggono Un uomo finito di Papini. Si tratta di un libro come, credo, oggi non si scrivono più. L'opera è una sorta di autobiografia/bilancio letterario di un uomo di appena trent'anni che si ritiene - ma è artificio retorico - un uomo finito.

Non è frequente che un letterato, anche con un'altissima opinione di sé stesso, come Papini scriva un libro di così grande sincerità. Egli confessa di considerarsi un uomo fallito, per non avere realizzato le proprie ambizioni giovanili. Le pagine migliori sono quelle dedicate all'infanzia e all'adolescenza, quando il ragazzo, di povera famiglia, trovava consolazione esclusivamente nella lettura dei libri, peraltro di difficile reperibilità per il loro costo. Dalle aspirazioni enciclopediche ed universali, il giovane passa agli studi sempre più circoscritti. E tuttavia legge, scrive, fonda riviste e gruppi filosofici, ma quando legge sente l'esigenza di scrivere e quando diventa scrittore vorrebbe realizzarsi come uomo d'azione. A nemmeno trent'anni, Papini sente di avere fallito la propria missione intellettuale di cui si sentiva investito e scrive questa sorta di autoaccusa che è anche un'autodifesa letteraria, caratterizzata da grandi orgoglio e sincerità.


Papini dichiara di provenire da una famiglia umile di orientamento socialisteggiante e di atteggiamento religiosamente ateo, testimoniato dall'apprezzamento per l'Inno a Satana del Carducci. Ma questo libro ha una struttura quasi cristologica, nel senso che a una prima parte puramente biografica e ad una seconda che sembra un'autocertificazione di morte, segue un epilogo che profuma di resurrezione e di ascensione al cielo, con quel suo «no! Io non sono un uomo finito!» che sembra annunciare una pasqua laica. Ed effettivamente negli anni seguenti Papini avrà una clamorosa conversione al cattolicesimo, preannunciata nel suo libro Storia di Cristo (1921),  purtroppo anche accompagnata dall'adesione al fascismo, da cui ricaverà anche onori e vantaggi di carriera accademica.