giovedì 26 dicembre 2013

Rainer Werner Fassbinder (di Vernaglione)

Paolo Vernaglione, Rainer Werner Fassbinder, Gremese, 1999, pp. 128, € 18,00.

Uscito nel 1999, il saggio del critico Paolo Vernaglione, lungi dall'analizzare i singoli film di Fassbinder (come fanno per esempio, gli esegeti che scrivono i volumetti della collana del Castoro Cinema), fornisce alcune linee interpretative della sua filmografia, lamentando che, a distanza di diciassette anni dalla sua morte, del cineasta tedesco si ricordino pochissime persone (e figuriamoci oggi, che di anni sono passati più di trenta), anche e soprattutto nello stesso mondo del cinema.
Fassbinder fu un artista a tutto tondo: scrittore, drammaturgo, musicista, attore, regista teatrale e cinematografico; fu artista prolificissimo: soltanto le opere destinate alla visione, cinematografica e/o televisiva, sono 43, realizzate in 37 anni di vita e in diciassette di intensissima, frenetica, attività, dal 1965 del primo cortometraggio (Il vagabondo) al 1982 di Querelle e della micidiale combinazione, probabilmente dagli esiti voluti, di cocaina e barbiturici.
Del regista tedesco, Vernaglione, offre alcune linee interpretative che rendano possibile una lettura complessiva dell'opera. Il cinema fassbinderiano viene messo in rapporto con la società tedesca dell'epoca (Fassbinder stesso partecipò, con un sofferto frammento, al lavoro collettivo Germania in autunno, sulla Repubblica Federale Tedesca nel periodo del terrorismo rosso e della repressione da parte del governo), con i rapporti sociali, di cui era indubbiamente un prodotto, ma sul quale allo stesso tempo pretendeva di avere una funzione interpretativa e creatrice, con il tema del desiderio, indubbiamente una delle chiavi di lettura, se compreso nei giusti termini. Il linguaggio di Vernaglione è a tratti filosofeggiante e richiede attenzione per essere capito: il volume edito da Gremese non è puro intrattenimento; ma anche chi non riuscisse a cogliere tutti i concetti espressi dal critico, ne ricava l'idea che il cinema di Fassbinder sia un corpus artistico di enorme importanza, anche per comprendere i rapporti sociali di ieri come di oggi.

domenica 3 novembre 2013

Mattia Signorini, Ora

Mattia Signorini, Ora, Marsilio, 2013, pp. 221, € 17,00

La prima riflessione che sorge dopo avere letto Ora è che la narrativa italiana deve essere proprio messa male, se un editore importante come Marsilio pubblica un romanzo come questo.
Non avevo mai letto niente di Mattia Signorini e comprai Ora dopo avere visto e sentito lo stesso autore che parlava del proprio libro in una trasmissione televisiva. Ed evidentemente il giovane scrittore veneto è molto più bravo e convincente nel parlare che nello scrivere.
Non che Signorini non sappia scrivere, ma questo romanzo manca degli elementi che un buon romanzo deve avere, a cominciare dall'ispirazione, come se Signorini, al pari del suo protagonista, l'avesse scritto per tenere fede alle promesse fatte al proprio agente e per riscuotere i sostanziosi anticipi dell'editore. Manca poi la necessità, nel senso che si avverte un procedere forzato e difficoltoso, che si divincola ad ogni passo dall'impantanamento, grazie all'inserimento di personaggi inutili e di maniera.
Per essere un romanzo di formazione, insomma, manca quasi tutto, ed infastidiscono particolarmente le falle che si aprono nel contesto realistico, che in un romanzo non è elemento essenziale, a meno che l'autore, com'è il caso di Signorini, non voglia per l'appunto scrivere un romanzo realistico.
Si potrebbe pensare, a voler essere benevoli, che Ettore sia una figura cristologica, tali sono gli effetti benefici che il suo arrivo provoca per i personaggi che incontra al suo paesino d'origine, tutti buonissimi e sempre pronti ad aiutarlo. Ma sarebbe una raffigurazione messianica che, anziché divenire protagonista di una vicenda come quella evangelica (che, quella sì, era carne e sangue, oltre che spirito santo), sembra calata nell'immobilismo ingessato di un presepio.
Il buonismo che - contro la volontà dell'autore, c'è da giurarci, perché vorrebbe trattare d'altro - costituisce il nerbo di Ora è veramente stucchevole e fa venire alla mente un'ideologia ruralista di stampo paratelevisivo. La storia del ritorno di Ettore al paese natale contempla una serie di personaggi che da un lato sembrano non aspettare altro che lui arrivi oppure, sebbene sia stato via dieci anni (la metà di Odisseo, ma questo Ettore non è stato né in guerra né a peregrinare per il Mediterraneo), non lo riconoscono nemmeno. Quindi c'è la vecchia solitaria, che tutti considerano una mezza strega, la quale si affeziona quasi subito al Nostro. C'è la ex, inspiegabilmente mollata dal protagonista, ora rimasta ragazza madre, con un frugoletto di sei anni, ovviamente simpaticissima canaglia, che si affeziona anche lui immediatamente a Ettore. E poi gli amici, quello che gli sistema il Ciao, un ciclomotore dato praticamente per estinto a metà anni Novanta e che qui, invece, sfreccia come una saetta; l'altro che gli fa riallacciare la corrente elettrica, la signora un po' burbera che si occupa di vendergli la casa, un altro che fa il ristoratore e gli offre il pranzo, il pazzo del villaggio che si rivela una specie di Jimi Hendrix e così via.
Tutto questo, unito ad un finale da romanzo d'appendice, se non da fotoromanzo (genere cui rimandano alcuni dialoghi, davvero che non si possono leggere senza farsi cogliere dalla nausea), che fa cascare le braccia per mancanza di credibilità, mette in secondo piano il rabbioso tentativo di conquista della maturità e di un rapporto con il padre, seppure postumo, da parte del protagonista.

mercoledì 23 ottobre 2013

Pier Paolo Pasolini, Il Vantone di Plauto

Pier Paolo Pasolini, Il Vantone di Plauto, Garzanti, 2008, pp. 158, € 10,00

Pasolini traduce il Miles gloriosus di Plauto e, secondo me, fa un bel buco nell'acqua. È pur vero che le opere teatrali andrebbero innanzitutto viste rappresentate e comunque la loro lettura non può che essere in funzione della rappresentazione sul palcoscenico ed ha un bel dire il prefatore Umberto Todini che il romanesco di Pasolini è il miglior modo di rendere l'eloquio plebeo di Plauto: il fatto è che il linguaggio reso in versi e con qualche rima vorrebbe tendere al Belli, ma il risultato è che si stenta a capire qualcosa delle avventure qui narrate su Pirgopolinice e le sue fanfaronate. Anche se d'autore, è pur sempre un buco nell'acqua, tanto che lo stesso Pasolini non rimase soddisfatto della rappresentazione del suo soldato vanaglorioso, portata sulle scene da Glauco Mauri. Come spesso si dice non a torto, il difetto sta nel manico.

Andrea Del Col, L'Inquisizione in Italia

Andrea Del Col, L'Inquisizione in Italia, Mondadori, 2006 (2012), pp. 963, € 17,00

Non credo che esistesse, prima dell'uscita di quest'opera del professor Andrea Del Col, dell'Università di Trieste, un'opera altrettanto ampia e dettagliata sull'attività dell'Inquisizione (o meglio: delle Inquisizioni) in Italia, dalla sua creazione ai giorni nostri. Forse è meglio parlare di Inquisizioni, poiché in Italia operarono almeno due di queste istituzioni, l'Inquisizione romana, presieduta dal papa ed operativa nell'Italia centrosettentrionale e l'Inquisizione spagnola, che faceva capo alla corona di Madrid ed esercitava le proprie prerogative nell'Italia meridionale, dominata appunto dalla monarchia spagnola.
Quella di Del Col è un'analisi il più possibile "asettica", nel senso che si pone come obiettivo di non accettare né le due ottiche attraverso le quali l'Inquisizione è stata presentata e che hanno dato vita rispettivamente ad una "leggenda nera" e ad una corrispondente, ma altrettanto fuorviante, "leggenda bianca". L'autore analizza numeri (rapportandoli ovviamente alla popolazione italiana dell'epoca) ed atti scritti, laddove essi esistano ancora e siano consultabili. Ci parla degli scopi dell'Inquisizione nelle sue diverse fasi di vita e dei suoi modi di operare in concreto, diversi da stato a stato, da periodo a periodo, da papa a papa, da giudice a giudice e da avversario ad avversario.
Ne esce un affresco assai composito, nel quale risaltano gli obiettivi politici della Chiesa e forse vengono sminuite le crudeltà perpetrate: il numero delle condanne capitali fu inferiore a quello che si ritiene, anche se continua a fare scalpore il fatto che l'istituzione che ritiene di continuare la parola e l'opera del Cristo abbia potuto mettere a morte tanti suoi figli, allo scopo di preservare sé stessa.
Del Col non tralascia di presentare, seppure per sommi capi, i casi più clamorosi di cui si interessò l'Inquisizione in Italia, dei quali si parla ancora oggi (solo per fare qualche nome, Girolamo Savonarola, Giordano Bruno e Galileo Galilei), ma soprattutto illustra i grandi temi di contrasto che assorbirono tante energie umane e finanziarie, dal catarismo alle religioni riformate (e tutti i loro corollari, con una miriade di singoli eretici, molti dei quali oggi assurti, a torto o a ragione, a martiri del libero pensiero), dalla stregoneria al quietismo, dal giansenismo all'illuminismo, fino ad arrivare alle soglie dei tempi nostri, dove alle scomuniche non seguono più, per fortuna, i roghi. Oggi la Chiesa, attraverso la Congregazione per la dottrina della fede (erede storica del fu Santo Ufficio) esamina e condanna le idee ma non le persone, che la stessa istituzione romana ritiene inviolabili al di là di ogni pensiero religioso.
Anche grazie al professor Del Col, si ha così la certezza che in qualche campo, negli ultimi secoli l'umanità (o almeno una sua parte, che ci riguarda da vicino) sia effettivamente progredita. La fine della parabola dell'Inquisizione, bianca o nera che sia stata la sua attività (che l'autore del libro contribuisce a storicizzare), ce lo conferma.

giovedì 12 settembre 2013

La Ballata del Vecchio Marinaio

Samuel Taylor Coleridge, La Ballata del Vecchio Marinaio, Feltrinelli, 2012, pp. 61, € 5,00.

Pezzo forte delle Ballate liriche (1798), tanto da far ingelosire il coautore della raccolta, William Wordsworth, La Ballata del Vecchio Marinaio nasce dalla necessità poetica di Coleridge di indagare le origini del male. L'Autore lo fa attraverso la figura adamitica del Vecchio Marinaio e quella quasi cristologica dell'albatro. Ma, come cantava Benigni, nell'amor le parole non contano, conta la musica, ed i versi della Ballata sono talmente musicali che non devono avere avuto troppe difficoltà gli Iron Maiden a musicare il testo di Coleridge per quella che è una delle loro canzoni più belle (The Rime Of The Ancient Mariner, in Powerslave, 1984).

mercoledì 31 luglio 2013

L'ultima trovata

L'ultima trovata. Trent'anni di cinema senza Elio Petri (a cura di Diego Mondella), Pendragon, 2013, € 16,00.

Non un volume completo su Elio Petri, morto nel 1982 a 53 anni, ma un bilancio su cosa sia rimasto della sua eredità cinematografica e una riflessione su alcuni suoi film, tra quelli più celebrati e quelli da rivalutare, con particolare riferimento a La decima vittima, La proprietà non è più un furto e Buone notizie. Non vengono invece considerati per niente film come Il maestro di Vigevano e Un tranquillo posto di campagna, quest'ultimo probabilmente il punto meno elevato della carriera di Petri, mentre il film con Sordi è probabilmente da considerare un'opera su commissione e quindi poco personale.
L'ultima trovata, il titolo, era una caratteristica del regista romano, basti pensare al finale di uno dei suoi lavori più noti, La classe operaia va in paradiso, dove la trama si conclude con la riassunzione di Lulù Massa nella fabbrica da cui era stato licenziato; ma vi è l'ultima trovata di Petri (e Ugo Pirro, suo sceneggiatore), quella del racconto del sogno del Militina da parte di Lulù. Una sequenza emblematica di tutto il cinema petriano, rispetto al quale questo volume costituisce un punto di riferimento, allo scopo di ricordare un artista del nostro cinema (anche premiato con l'Oscar per il film straniero con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), che è stato troppo dimenticato nei trent'anni trascorsi dalla sua morte.

lunedì 8 luglio 2013

L'ultima parata di Moacyr Barbosa

Darwin Pastorin, L'ultima parata di Moacyr Barbosa, Mondadori, 2005, pp. 92.

Darwin Pastorin
Un uomo e il silenzio che ha cominciato a circondarlo in un preciso momento della sua vita. Da quando ha subito il secondo gol in una partita di calcio, la finalissima dei Campionati Mondiali del 1950, a Rio de Janeiro, nello stadio del Maracanà. Un uomo che si trasforma da portiere della squadra a una sorta di paria, di intoccabile, di innominabile. Anzi, Moacyr Barbosa diventa nominabile soltanto nelle locuzioni negative, del tipo "farai la fine di Barbosa".
Barbosa era il portiere della nazionale di calcio brasiliana nella partita del 16 luglio 1950, che in Brasile è rimasta famosa come "il disastro del Maracanà", quando la nazionale verdeoro incontrò l'Uruguay, in un match nel quale ai padroni di casa bastava anche un pareggio per aggiudicarsi la Coppa Rimet, un trofeo che tutti brasiliani davano già per acquisito. E invece la nazionale uruguagia vinse per 2 a 1 in rimonta e il trofeo finì a Montevideo. Di quel disastro, fu incolpato soprattutto il protagonista di questo libro del giornalista italo-brasiliano Darwin Pastorin, a dimostrazione che se nel calcio c'è un errore irrimediabile, è quello del portiere.
L'autore del libro riflette, in termini anche poetici, secondo la lezione giornalistica appresa da un Maestro come Gianni Brera, sul destino di un calciatore immeritatamente assurto al ruolo di colpevole di una disfatta storica, che ha dovuto scontare per il resto della sua lunga vita.
Per la verità, se si considera la sua carriera di portiere, Barbosa è stato un vincente: sette campionati tra quelli di Rio e San Paolo e una Coppa dei Campioni Sudamericana con il Vasco da Gama, più un Campionato Sudamericano con la nazionale, ma non è mai riuscito a togliersi di dosso l'onta del "Disastro del Maracanà", che colpì tutti e undici i giocatori scesi in campo quel giorno contro l'Uruguay, ma soprattutto lui.

sabato 29 giugno 2013

Ti volevo dire (Rizzoli)

Daniele Bresciani, Ti volevo dire, Rizzoli, 2013, pp. 369, € 17,00

Nella narrativa italiana degli ultimi anni si trovano tanti autori che sanno scrivere e che hanno qualcosa da raccontare, tanto che, sia per una questione di tempo sia per ragioni puramente economiche (i libri costano!) anche il "mestiere" di lettore implica numerose, talvolta dolorose, scelte. A fronte di un alto numero di scrittori professionali o provenienti da altre attività (come nel caso di Bresciani, giornalista presso importanti testate), è latitante la letteratura, intesa come quantità di riferimenti culturali che trasudano da un testo. I grandi romanzi raccontano sempre una storia, ma nel farlo parlano anche di altro: parlano di un periodo storico, di una filosofia di vita, di un'interpretazione del senso dell'esistenza, di una visione del mondo e dei fini ultimi dell'uomo. Oppure, ci parlano di sensazioni universali, descrivendo stati d'animo comuni a ciascuno di noi, ma che non tutti sono in grado di esprimere a parole.
In questo senso, Ti volevo dire non è un grande romanzo. Ma questo breve preambolo non voleva certo fungere da denigrazione nei confronti del romanzo di Bresciani, verso il quale mi hanno attratto diversi fattori e che in definitiva mi è piaciuto. Il primo fattore (assai esteriore, lo riconosco) che mi ha colpito, invitandomi ad andare in libreria e tirare fuori i soldi dell'acquisto è stato il nome di battesimo del protagonista, che, abbastanza inusualmente, è mio omonimo. Ma le analogie tra il protagonista e il sottoscritto (e quindi i fattori di attrazione) non si limitano a questa. Giacomo (che già all'inizio del romanzo muore) è stato una persona che non ha saputo o voluto assumersi molte responsabilità, uno di quegli individui (cui, come s'è capito, guardo con affetto) che si lasciano scivolare addosso la vita. È vero che si era creato una famiglia, ma non ha saputo farsela durare e poco prima di morire, viveva da solo con la amatissima figlia adolescente Viola, l'altro polo magnetico del libro. Giacomo, figlio unico, è vissuto dapprima nel cono d'ombra di un padre iperprotettivo, uno di quegli uomini che hanno contribuito attivamente al miracolo economico italiano del dopoguerra, un padre che si sentiva in diritto di pretendere per il figlio un destino lavorativo similare e conseguente al proprio (per questo manda giù obtorto collo che si iscriva alla facoltà di Lettere dell'università). Dopo di che, Giacomo s'è consegnato ad una moglie attivissima, che deve avere apprezzato ben poco la dolce remissività di un uomo rimasto legato alla musica degli anni Sessanta e Settanta e ad un potentissimo primo amore di gioventù. E questo è un ulteriore elemento che mi rende umanamente vicino quest'altro Giacomo. Il quale, da studente, per una di quelle vacanze-studio che poi si svilupperanno nei vari programmi Erasmus (qui siamo nel 1980), durante un'estate passata a Brighton, conosce Claire, una ragazza inglese con la quale intreccia un'intensa relazione sentimentale.

Ho detto che Giacomo è un individuo dolcemente indeciso ed è, effettivamente, per come lo descrive Bresciani, una persona mite. Non si deve però pensare che questa sua indecisione - un tratto del carattere che di per sé potrebbe non avere implicazioni negative - sia anche innocua. La vita impone sempre ed inevitabilmente delle scelte e fuggire davanti ad esse può significare fare del male al prossimo, un male che può crescere dentro per anni, fino a fermarti il cuore in una notte qualsiasi. Un male che è tanto più grave e persistente per quanto è stato perpetrato nei confronti della persona amata, del grande amore di una vita, quello che non sarà mai dimenticato. Ed è un male (una di quelle entità di cui non si può misurare l'estensione, se non per via empirica, come con la Scala Mercalli per i terremoti) che produce i propri effetti a distanza di anni, su soggetti del tutto incolpevoli dei fatti accaduti tanto tempo prima. E così succede che Viola, scoperto del tutto inaspettatamente il cadavere del padre, diventi vittima di un blocco psicologico che le impedisce di parlare. E allora il romanzo racconterà, in parallelo, il percorso di questa adolescente per riappropriarsi della parola, della propria voce, grazie all'aiuto di una serie di personaggi, tra i quali una compagna di collegio e all'insperata collaborazione di una sorta di fratellastro (il figlio del nuovo compagno della madre), l'inizialmente antipatico, o peggio, indifferente, Tancredino.

I difetti, nel romanzo, ci sono: oltre a quanto scrivevo all'inizio, c'è, talvolta, un'eccessiva descrizione di particolari che confina con il lezioso e il minuzioso, oppure l'esagerata volontà dell'autore di dimostrare che lui a Londra c'è stato, che ha visto quello e fatto quell'altro, prima di noi.
Ma il racconto è sentito, la storia profuma di vissuto, la trama non è scontata, così come non è corrivo il riferimento ad una lontana gioventù, vissuta come un momento di autenticità di una vita che ti regala insieme i primi palpiti e le prime difficilissime scelte da prendere. E si sente, in Bresciani, l'amore per i suoi personaggi (quasi tutti fin troppo positivi) e per la cultura inglese, riassunta nella musica dei grandi gruppi e dei grandi musicisti rock degli anni Settanta, dai Deep Purple ai Pink Floyd (il concerto della tournée seguita alla pubblicazione dell'album The Wall è uno dei momenti indimenticabili della storia d'amore tra Claire e Giacomo), dai Led Zeppelin al poco conosciuto ma assai meritevole John Martyn.

domenica 9 giugno 2013

Sbatti Bellocchio in sesta pagina

Steve Della Casa e Paolo Manera, Sbatti Bellocchio in sesta pagina, Donzelli, 2012, pp. 228, € 18,00

Davvero interessante questo libriccino edito l'anno scorso dalla Donzelli, che raccoglie un florilegio di commenti cinematografici usciti sulle pubblicazioni della sinistra extraparlamentare nel periodo che va dal 1968 al 1976 (e i due autori, nella postfazione, spiegano il perché dello stop proprio al 1976). Si tratta di commenti, usciti quasi sempre anonimi, su quotidiani o riviste quali Lotta continua, il manifesto, Servire il popolo, il Quotidiano dei lavoratori. Quello che salta all'occhio è che si tratta, per un buon novanta per cento, di stroncature, anche dure e fatte con linguaggio provocatorio, di film importanti e soprattutto di autori "di sinistra", ma spesso giudicati spregiativamente dei riformisti. Tra i registi più stroncati, oltre a quello citato nel titolo (ovviamente con il suo Sbatti il mostro in prima pagina), Bertolucci (per Novecento), i fratelli Taviani (con Allonsanfàn) ed Elio Petri, in particolare per il suo La classe operaia va in paradiso, quasi unanimemente valutato come troppo riformista e vicino al metodo trattativistico dei sindacati confederali. I recensori delle testate prese in esame (oltre a quelle già citate, anche Re nudo, La vecchia talpa e Vedo rosso) capiscono assai bene l'importanza, se non altro propagandistica, del cinema - visto anche come momento di svago intelligente, ed alternano intuizioni anche geniali con cantonate epocali (basti pensare alle stroncature su Arancia meccanica e Barry Lyndon di Kubrick), mettendo comunque in evidenza un modo di ragionare quasi sempre offuscato dal paraocchi dell'ideologia marxista-leninista-maoista, tanto da condannare, quasi senza eccezioni (l'eccezione è data, intelligentemente, da Bersaglio di notte di Arthur Penn), sebbene per motivazioni ideologicamente diverse, il cinema americano.
Non foss'altro perché gran parte della classe dirigente di oggi, anche su schieramenti opposti, proviene dalle fila di quelle formazioni a sinistra del vecchio PCI, è interessante vedere come pensassero e come scrivessero queste avanguardie della classe operaia. E cosa pensassero degli autori cinematografici che, almeno in Italia, erano convinti di interpretare le loro istanze in campo artistico. Anche perché, in ogni caso, è sempre meno noioso parlare di cinema che di politica.

lunedì 27 maggio 2013

Patria 1978 - 2010

Enrico Deaglio (e Andrea Gentile), Patria 1978 - 2010, 2010, Il Saggiatore Tascabili, pp. 1035, € 14,90

La storia di questo libro di Deaglio inizia nel 1978, l'anno del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro e dei Campionati Mondiali di calcio nell'Argentina di Videla (recentemente scomparso, ironicamente ed eufemisticamente ricordato da qualcuno come l'uomo che da solo vinse un mondiale di calcio), ma sarebbe potuto iniziare con il 1969 di Piazza Fontana. Dall'anno di Moro, fino al 2010 in cui scoppiano i primi scandali "sessuali" di Berlusconi (Noemi Letizia, Ruby Rubacuori ecc.), è un rosario di eventi di cui l'Italia e il suo popolo sono spesso sia attoniti spettatori che protagonisti. Deaglio non ha dovuto inventare proprio niente: tutto sommato, si è limitato a fornire un elenco, ragionato e commentato, dei fatti e misfatti italiani dei trentatré anni presi in esame dal libro. L'autore, con la valida collaborazione del giovane Andrea Gentile, ha aggiunto soltanto indicazioni bibliografiche, discografiche (per ogni anno è indicato un cantante con una canzone particolarmente significativa) e filmografiche (Deaglio è autore di validi documentari sulle res gestae berlusconiane come Quando c'era Silvio e Uccidete la democrazia!, entrambi del 2006). Questo libro, genialmente definito da Michele Serra «un breviario terrificante da tenere sul comodino», snocciola davanti agli occhi attoniti del lettore, quasi incapace di rendersi conto che simili cose siano potute accadere, nei nostri tempi, nel nostro paese, eventi di cui gli Italiani - spesso colpevoli o almeno complici delle malefatte narrate - si dovrebbero vergognare davanti al mondo.
Patria è un libro che si legge avidamente pagina dopo pagina, anche se è noto il tragicomico finale, ma soprattutto è un testo necessario a chi voglia rendersi conto che un popolo il quale, dopo quasi mezzo secolo di regime democristiano, si affida a Berlusconi non può certo dirsi innocente o vittima degli strali del Fato.

venerdì 24 maggio 2013

Bartleby lo scrivano

Herman Melville, Bartleby lo scrivano, BCD, 2012, pp. 68, € 5,90

Fulminante e geniale racconto lungo (una cinquantina/sessanta pagine), uscito nel 1853, di Herman Melville, che sembra la narrazione di un caso di scuola, ma è probabilmente la metafora di una condizione personale dello scrittore stesso. Quella, cioè, di un autore, già affermato ma di difficoltoso successo, che, a chi lo spingeva a pubblicare testi che potessero trovare maggiore successo da parte dei lettori, se non a lanciarsi nel mondo più redditizio degli affari, rispondeva semplicemente, senza ulteriori spiegazioni, come Bartleby, «preferirei di no».
Questa semplicissima chiave di lettura (fornita, tra gli altri, da Lewis Mumford) rende ancora più geniale un racconto peraltro scritto benissimo.



sabato 18 maggio 2013

La via del tabacco

Erskine Caldwell, La via del tabacco, Fazi, 2011, pp. 217, € 18,50.

L'America profonda della Grande Depressione, dove una miseria atavica, aggravata dalle conseguenze del crac del '29, sembra essersi insinuata nel patrimonio genetico di alcune persone, come i disgraziati membri superstiti della famiglia Lester (o almeno di quelli che continuano a stazionare nei pressi della catapecchia che fu di loro proprietà).
L'estremo realismo di Caldwell sfocia spesso nel grottesco (con un atteggiamento di compassione critica che ricorda quello che sarà adottato dal Pasolini dei suoi romanzi migliori, come Ragazzi di vita e Una vita violenta), come se l'autore stesso volesse soprattutto parodiare la letteratura di derivazione ottocentesca, laddove essa tendeva a idealizzare gli stati del Sud - come la Georgia di La via del tabacco - con la loro presunta tradizione di cavalleria e di eleganza, contrapposte al rozzo pragmatismo degli stati del Nord e del West.
In questo modo, Caldwell raggiunge spesso, oltre allo scandalo per l'audacia delle descrizioni e per la ferocia della critica sociale (con uno Stato del tutto assente, che lascia i propri cittadini nella miseria e nell'ignoranza più totale), vette che non molti altri scrittori americani di quel periodo hanno saputo toccare e che fanno di La via del tabacco un capolavoro.

venerdì 10 maggio 2013

Ancora sul caso di Emanuela Orlandi

Ieri, giovedì 9 maggio 2013, La Repubblica ha dedicato tre paginone centrali al caso, mai risolto, della scomparsa di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana quindicenne, avvenuta ormai trent'anni fa. Si legge il primo articolo dedicato all'argomento, firmato Paolo Rodari, e cascano letteralmente le braccia. Il pezzo, che indica come luogo di provenienza la Città del Vaticano, riporta inopinatamente in auge la pista del terrorismo internazionale. Il giornalista riporta dichiarazioni provenienti da una fonte anonima (e sai che autorevolezza, che novità, in questo caso!), proveniente proprio dall'interno del Vaticano. Scrive Rodari: «A sorpresa è proprio un monsignore del Vaticano che intende restare anonimo a entrare con lucidità entro il mistero. Lo fa trent'anni dopo». Di fronte ad affermazioni e/o informazioni di questo genere, verrebbe da esclamare: quale sorpresa! Quale coraggio! Quanto tempismo! Ma non basta, perché il pezzo pubblicato da Repubblica continuando a citare l'anonimo vaticano del sublime: «Lo fa senza avere scoop da rivelare. Ma mostrando semplicemente una capacità unica di tirare le fila. Dice: "Giovanni Paolo II qualche mese dopo la scomparsa di Emanuela disse agli Orlandi che si trattava di un caso di terrorismo internazionale. Che sia così, ne siamo tutti convinti, ma la domanda resta una: cosa intendeva il papa per terrorismo internazionale? Sono in molti oltre il Tevere a ritenere che la scomparsa sia legata alla Banda della Magliana e insieme ad ambienti malavitosi italiani». Tutto si fa, pur di allontanare i sospetti dall'interno del Vaticano. La pista del terrorismo internazionale fu creata per ingarbugliare le carte, da persone legate alla scomparsa di Emanuela ed anche da altri soggetti esterni (leggasi Stasi), interessati a creare caos nel campo occidentale. L'impressione è che l'anonimo del sublime sia l'ennesima voce poco intenzionata a far emergere la verità.
Presterei maggiore attenzione a quanto emerso, invece, dopo che un signore, attraverso la trasmissione televisiva di Raitre Chi l'ha visto? ha fatto ritrovare un flauto, che potrebbe essere quello appartenuto ad Emanuela Orlandi e che la ragazza aveva con sé proprio al momento della scomparsa. Anche di questi sviluppi parla Rodari, riportando il fatto che questo signore, di nome Marco Accetti, «recentemente si è autoaccusato di essere stato uno dei telefonisti del caso Orlandi». Per di più, questo Accetti era stato protagonista, sempre nel 1983, di un altro oscuro episodio culminato con la morte di un ragazzino di dodici anni, a Roma, episodio di cui si è occupata la puntata di Chi l'ha visto? dell'8 maggio 2013.
Per fortuna, direi, sullo stesso numero di Repubblica, tira le fila del caso il romanziere e magistrato Giancarlo De Cataldo, riducendo le ipotesi possibili per la scomparsa di Emanuela a due sole, scartando definitivamente quella del "terrorismo internazionale": la cosiddetta "pista Nicotri" (dal nome del giornalista Pino Nicotri, che ipotizza una Emanuela rimasta vittima di un gioco erotico all'interno del Vaticano) o quella della banda della Magliana (Emanuela rapita come arma di pressione nei confronti dello spregiudicato finanziere vaticano Paul Marcinkus, per somme mai restituite). A questa seconda ipotesi, che avrebbe avuto come corollario la sepoltura di "Renatino" De Pedis nella Basilica romana di Sant'Apollinare (quale risarcimento postumo per somme di denaro mai restituite dal Vaticano ai malavitosi), personalmente, non credo.
Restano due fatti inoppugnabili: Ali Agca non c'entra niente con la scomparsa di Emanuela Orlandi e gli dovrebbe essere impedito di parlare ancora della vicenda, anche perché finora non ha fatto che inquinare e depistare; secondo, la verità è sepolta e dev'essere ricercata in Vaticano: e la speranza, che è sempre l'ultima a morire, ma è forse anche l'ultima possibile, si chiama oggi Jorge Mario Bergoglio, alias Francesco I.

giovedì 25 aprile 2013

Roland H. Bainton, La Riforma protestante, Einaudi, 2000, pp. 280, € 22,00
Interessante ricostruzione delle origini e degli sviluppi della Riforma protestante, a partire dalla predicazione di Lutero, fino alla sua diffusione in tutta l'Europa settentrionale, compresi i suoi effetti sui modi di vivere e sull'economia (Bainton avversa la famosa teoria di Max Weber sull'etica protestante come motore del capitalismo). Vengono analizzati dall'autore i principali filoni che seguì la Riforma a partire dal 1517: il luteranesimo, il calvinismo, lo zwinglianesimo, l'anabattismo e l'anglicanesimo. Il maggior pregio del testo del Bainton (autore del quale avevo già apprezzato Vita e morte di Michele Serveto, editato nel 2012 da Fazi) è la semplicità con la quale spiega, oltre agli aspetti storici della vicenda - particolarmente importanti nella biografia di Lutero - anche quelli teologici, di cui si riesce a capire ogni sottigliezza ed ogni distinzione dottrinaria.

domenica 31 marzo 2013

Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia, Laterza, 2012, p.369, € 18,00

Ci sono dei libri che danno una soddisfazione maggiore di quella che deriva dal semplice piacere della lettura in sé. I prigionieri dei Savoia è uno di questi, perché conferma un'opinione che mi ero fatto alcuni anni fa, leggendo un altro libro, sullo stesso argomento, anche se di segno opposto, intitolato Indietro Savoia! (2003), di Lorenzo Del Boca. Di questo autore, nel testo del prof. Barbero, viene citato un altro saggio, di orientamento analogo ma precedente a quello che avevo letto io, cioè Maledetti Savoia (1998).
La situazione va un po' inquadrata. Alessandro Barbero afferma espressamente che il suo libro nasce nell'ambito e come risposta al fenomeno che viene normalmente definito "pubblicistica neoborbonica", il quale ha preso piede negli ultimi anni in Italia, in contrapposizione alla storiografia ufficiale sul Risorgimento. Per quanto mi riguarda, penso che nei circa centocinquant'anni che ci separano dalla spedizione dei Mille di Garibaldi e poi dall'Unità d'Italia (data ufficiale, come ormai sappiamo, il 17 marzo 1861) sia stata fatta fin troppa retorica riguardo al Risorgimento, sebbene si debba rispetto ai tanti che dettero la vita per questa causa. E lungi da me sia l'intenzione di prendere le parti di una dinastia regnante francamente indifendibile come quella dei Savoia, i cui membri hanno presentato magagne davvero imperdonabili. Però qualsiasi critica deve basarsi sui fatti e quindi spetta allo storico verificare se la revisione storica su un fenomeno fondamentale per la nostra storia si basi su fatti veridici, perché non si trasformi in deleterio revisionismo. Di quest'ultimo fenomeno fa parte, secondo me, l'opera di Del Boca (quanto meno il libro che mi è capitato di leggere), dove ci si lasciava andare ad affermazioni gratuite, del tipo che «Cavour era un secchione, con la testa sempre immersa tra i libri», oppure che «le SS dell'Ottocento indossavano la divisa dell'esercito del Piemonte», ma anche ad improvvidi paragoni con la politica dei nostri tempi, in particolare per paragonare la politica militare savoiarda con la "Missione Arcobaleno" voluta dal Governo D'Alema (???).
Ecco, insomma, in questo contesto nasce il libro di Alessandro Barbero, che intende controbattere ad affermazioni, fatte da diversi autori, sul tipo di quella che ho riportato sopra, relativa al paragone tra i soldati sabaudi e le SS naziste. In particolare, Barbero ricostruisce la congiura che fu scoperta nel forte di Fenestrelle, sulle Alpi piemontesi: il sottotitolo del libro, infatti, è La vera storia della congiura di Fenestrelle. Per ricostruire la vicenda della congiura, però, Barbero è costretto a partire da un po' più lontano, in particolare dalla spedizione dei soldati sabaudi nel Regno delle Due Sicilie e dal destino dei prigionieri di guerra presi durante quella "guerra non dichiarata". Lo scopo dell'autore (peraltro piemontese come Del Boca), infatti, non è quello di difendere i Savoia, ma di verificare sul campo quanto scritto dagli autori che per comodità chiamerei neoborbonici, in particolare in merito al fatto che, secondo costoro, Fenestrelle sarebbe stato una sorta di campo di sterminio (qualcuno arriva ad affermare che sarebbe servito da modello per Auschwitz!), dove persero la vita migliaia di prigionieri borbonici, poiché si erano rifiutati di giurare fedeltà nell'esercito di Vittorio Emanuele II. Senza entrare nel merito dei dati e delle ricerche fatte da Barbero (che rendono alquanto pesante la prima parte del libro, ma di certo è più suggestivo buttare là delle ipotesi che non mettersi a spulciare documenti d'archivio e renderne conto), si possono riassumere le conclusioni cui l'autore giunge, nel senso che Fenestrelle era una fortezza militare, sede anche di un corpo speciale e punitivo dell'esercito (i Cacciatori Franchi), ma che niente aveva del lager; Barbero dimostra altresì che i soldati meridionali che morirono a Fenestrelle furono pochissimi (peraltro non tutti ex militi borbonici), in numero del tutto fisiologico per una caserma (la maggiore causa di decesso fu il tifo) di quel 1861 e che la congiura smascherata nell'agosto di quell'anno portò a dieci arresti e a condanne tutt'altro che pesanti, contrariamente a quanto viene ultimamente raccontato dai revisionisti neoborbonici.
Alla fine, vorrei soltanto riportare qualche riga dedicata da Barbero a Del Boca (cui contrappone un rigoroso metodo storico - scientifico), già presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e per una decina d'anni dell'Ordine dei giornalisti: «Il suo libro (Maledetti Savoia, n.d.r.) s'inserisce nella moda del rancoroso revisionismo nei confronti del periodo risorgimentale, e riscuote un notevole successo. Eppure, per quanto riguarda le pagine dedicate al nostro argomento il libro di Del Boca è un ammasso di falsità e di errori. [...] Uno storico potrebbe essere interessato, a questo punto, alla ricchissima documentazione prodotta dall'amministrazione piemontese, dove ogni singolo individuo è stato registrato con burocratica precisione, ma il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana preferisce tagliar corto: "Certo le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate da nessuna parte". Sarebbe interessante sapere se questo bel modo di dare le notizie, o meglio di inventarle, sia abituale presso i giornalisti italiani, che si sono riconosciuti unanimemente e così a lungo in Del Boca; è un fatto che il suo libro ha contribuito non poco a far degenerare il linguaggio usato da chi si occupa di questa questione, e a mettere in circolo mistificazioni prive di qualunque fondamento».
In conclusione, direi che I prigionieri dei Savoia è un libro interessantissimo, dal punto di vista storico ed anche in funzione di un'interpretazione più consapevole dell'Italia di oggi, anche se non raggiunge le vette di capolavori di Alessandro Barbero, quali La battaglia (2003, su Waterloo) e Lepanto. La battaglia dei tre imperi (2010).

sabato 9 marzo 2013

Anna Funder, C'era una volta la DDR, Feltrinelli, 2010, pp. 256, € 8,00

Dice la Funder che per comprendere cosa sia stata la DDR è necessario raccontare le storie delle persone comuni, non solo degli attivisti o degli scrittori famosi. E forse è anche più facile, perché consente di non doversi leggere e studiare libri e documenti sull'argomento: basta intervistare qualche sopravvissuto. Operazione anche questa non difficile, poiché stiamo parlando di una storia che è finita meno di un quarto di secolo fa e che anche chi, come il sottoscritto, non è particolarmente vecchio, si ricorda più che bene. Questo è uno dei difetti di C'era una volta la DDR, un libro che fin dal titolo rimanda alle favole per ragazzi, ma che, non so quanto appropriatamente, si trova nel reparto di Storia delle librerie. Gli altri difetti risiedono principalmente nella scrittura della scrittrice australiana, che affronta il libro con un approccio prettamente femminile, sia nello stile che nell'oggetto del racconto: non a caso, dalla parte delle vittime, si trovano quasi tutte donne, mentre dal lato dei "carnefici", gli agenti della Stasi, si trovano tutti rappresentanti del sesso maschile. Eppure, la premessa era che nella DDR un cittadino su sei era un agente del famigerato servizio segreto: che fossero tutti maschi? Poi c'è lo stile della Funder, che indulge fastidiosamente a raccontare particolari inutili ed autoreferenziali, quasi che avesse bisogno di riempire le pagine con notazioni personali, le quali, nell'economia del libro (non lo definirei, come fa la Feltrinelli, "saggio") rivestono un'importanza pressoché nulla. Faccio un solo esempio, ma il libro è pieno zeppo di periodi come questo: «Mi reggo alla maniglia della portiera con una mano e tengo stretto lo zainetto in grembo con l'altra. Mi chiedo se lo zainetto possa avere un qualche effetto come airbag». A merito della scrittrice va la passione con la quale racconta le storie di gente comune, la cui vita è stata condizionata, quando non rovinata, dalla presenza pervasiva di un regime che si manifestava spesso attraverso la sua polizia segreta e che si era fatto conoscere dal resto del mondo grazie alla costruzione di un Muro, vigilato dal filo spinato e da guardie pronte a sparare.
Chi voglia sapere di più sulla Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990) deve rivolgersi ad altri testi; ma anche opere cinematografiche, come Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck, o letterarie, come Tentativi di avvicinamento (1980) di Hans Joachim Schädlich.

lunedì 4 marzo 2013

Alexandre Dumas, I fratelli corsi, Donzelli, 2009, p. 149, € 19,50

Dumas padre era un narratore puro, uno che badava alla trama da raccontare, più che ai risvolti psicologici dei suoi personaggi. O almeno è così in questo racconto lungo, ambientato per una buona metà in Corsica, un luogo che, contrariamente a quanto appare dal testo in esame, lo scrittore francese non visitò mai. In appendice a I fratelli corsi, si legge in questo volumetto edito da Donzelli anche un secondo racconto, ambientato in Italia, I due studenti di Bologna, accomunato al primo dall'elemento spiritico e soprannaturale. Il primo racconto parla infatti di due fratelli, accomunati, oltre che per essere gemelli, anche dal fatto che entrambi condividono lo stesso destino di vedere i fantasmi degli antenati ogniqualvolta si trovano ad affrontare un momento fondamentale della loro vita, ma anche dalla facoltà di percepire ciascuno i dolori e le preoccupazioni dell'altro. In I due studenti di Bologna il motore dell'azione è un patto che i due amici del titolo (il cui sentimento sembra, seppur velatamente, travalicare i confini di una "normale" amicizia) stipulano, come si narra che fece San Giovanni Bosco con un collega del seminario: il primo di loro che fosse morto sarebbe apparso all'altro. E così fanno, per sventare un piano criminale ed assicurare alla giustizia i sequestratori che avevano ucciso uno dei due. E, alla fine, molto ottocentescamente, vissero felici e contenti. O meglio, visse solo uno dei due studenti, ma sposando la sorella dell'amico defunto. Una lettura decisamente divertente, sebbene a posteriori non rimanga una grande impressione di spessore letterario. O forse è soltanto una mia sensazione.

venerdì 15 febbraio 2013

Il servo (e/o)

Robin Maugham, Il servo, e/o, 2000, p. 128, € 11,36
Il romanzo Il servo (1948) di Robin Maugham e il film Il servo (1963) di Joseph Losey, tratto dall'opera di Maugham, sono, nel rispettivo ambito, due capolavori. Pur nella sostanziale linearità della trama, tra romanzo e film cvi sono significative differenze. Per prima cosa l'autore, o meglio gli autori - Robin Maugham era uno scrittore/drammaturgo di estrazione sociale nobiliare e di tradizione intellettuale (essendo nipote del narratore William Somerset Maugham), dichiaratamente omosessuale, Losey era un regista americano convintamente comunista, costretto all'esilio dagli USA a causa del maccartismo e Harold Pinter, lo sceneggiatore, era un intellettuale ebreo di origini esteuropee, laureato in vecchiaia con il Premio Nobel per la Letteratura (2005), politicamente di sinistra - avevano impostazioni culturali diverse. Quindi, come conseguenza, nel film è accentuato l'aspetto di lotta di classe della scalata del "servo" Barrett che, pur già presente nell'opera letteraria, cedeva il passo alla preponderanza della tematica sessuale evidenziata da Maugham. Ulteriore differenza è la scomparsa, dal libro al film, del personaggio narrante, in favore di un'oggettivizzazione che lascia sulla scena quasi esclusivamente il servo e il padrone, in una sorta di aggiornata versione dell'eterna lotta tra due figure storiche, oltre che funzioni letterarie. Cambia, infine, lo stile: il romanzo dello scrittore inglese è di una chiarezza e di una linearità quasi crudeli, laddove il film di Losey assume un andamento sinuoso e quasi insidioso. Permane, in entrambe le opere, la struttura di una discesa agli inferi, rispetto alla quale il lettore, lo spettatore, ma nel libro anche il narratore, non può che rimanere attonito e impotente, conscio di avere assistito a un fenomeno quasi incomprensibile, ma che forse fa parte dell'evoluzione (o dell'involuzione) della società.
Si tratta di due opere che non si elidono a vicenda e tra le quali è difficoltoso fare paragoni e confronti, ma, per il piacere dell'intelletto, conviene leggere il romanzo e vedere il film.

domenica 3 febbraio 2013

Billy Budd

Herman Melville, Billy Budd, Feltrinelli, 2011, p. 148, € 7,00
Capolavoro della maturità, l'ultimo purtroppo, di Melville, che morì mentre stava appunto scrivendo questo romanzo. Nonostante la formale incompiutezza, quindi, Billy Budd è un testo contenutisticamente colto, storicamente documentato e stilisticamente maturo. La narrazione è spesso interrotta da digressioni (in misura minore rispetto agli altri romanzi dell'Autore, informa chi li ha letti) che inquadrano la vicenda dell'Avvenente Marinaio nel loro contesto storico, cioè quello della guerra navale tra l'Inghilterra e la Francia del Direttorio (1797), costellato da una serie di ammutinamenti, ma si concentra fin da subito sul protagonista. Che risulta ben presto come il perfetto capro espiatorio di situazioni che nemmeno conosce, il puro di cuore destinato a soccombere, l'idiota dostoevskiano, ma anche una figura di Cristo, un Cristo incolpevole sebbene non innocente, chiamato a penzolare da un pennone della nave, come il figlio di dio dalla croce.
Ma quello che conta, in ogni romanzo che si rispetti, più della vicenda narrata, è lo stile dello scrittore e Melville dimostra di essere uno scrittore grandissimo, con una propria personalità, che non ha molti pari nella narrativa americana dell'Ottocento, che pure non difetta di buoni autori. Qui la lingua di Melville si giova dell'ottima traduzione del poeta fiorentino Alessandro Ceni: valore aggiunto ad un'opera potentissima già di per sé.

mercoledì 9 gennaio 2013

Friedrich Dürrenmatt, Romolo il Grande, Marcos y Marcos, 2006, pp. 145, € 11,00.
Nel 476 d. C., Odoacre, re degli Eruli, depose Romolo Augustolo, ultimo debole imperatore d'Occidente. Termina quasi sempre così il capitolo dei libri di storia, dedicato alla caduta dell'Impero romano d'Occidente.
Sul capovolgimento di questo assunto - cioè che Romolo Augustolo fosse un sovrano debole - si basa questo dramma storico senza storia di Dürrenmatt. Dove il protagonista del dramma diventa anche protagonista della Storia. Presentato come un sovrano ignavo, perfetto esempio della decadenza dell'impero e causa finale della sua caduta, via via che si susseguono gli atti della pièce, l'ultimo imperatore fa capire come ci sia del metodo nella sua (presunta) follia. Avendo compreso la natura perversa e violenta dell'Impero Romano (e del potere in generale, nonché della sua retorica, dice l'Autore fuor di metafora: «proprio della patria bisogna sempre diffidare. A nessuno riesce così facile uccidere come alla patria.»), Romolo decide di sabotare deliberatamente dall'interno le fondamenta e le istituzioni, in modo che coloro che arriveranno - i popoli germanici, contraddistinti dall'uso dei pantaloni - non avranno che da far crollare un castello di carte. E il supremo sacrificio sarà quello dell'imperatore stesso. che accetterà la morte per mano del re dei nuovi barbari. Ma non andrà così: mentre Romolo attende la glorificazione, tramite l'offerta della propria vita (o meglio: accetta di morire, come evento inevitabile), da parte di questi guerrieri di stirpe germanica, Odoacre si aspetta la legittimazione da parte dell'ultimo imperatore d'Occidente. Prima di mettere fine al suo potere, ma senza spargimento di sangue. Infatti il re degli Eruli offre a Romolo salva la vita e un vitalizio, che questi accetta, dimostrando con tale gesto - sono parole dello stesso Dürrenmatt - la propria grandezza.
Forzando in più punti il dato storico (Romolo Augustolo, nel 476, non era che un imberbe quattordicenne e non aveva figlie in età da marito, né la deposizione dell'imperatore avvenne nella data, pur simbolica, delle idi di marzo, ecc.), Dürrenmatt propone un racconto verosimile, che brilla come un'acuta riflessione sul potere e in particolare su come sia talvolta doveroso sottrarsi agli assurdi e ottusi obblighi che esso impone.