lunedì 31 dicembre 2012

Riccardo Redaelli, L'Iran contemporaneo, Carocci, 2011, pp. 182, € 14,50.

Professore all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Redaelli spiega cosa sia l'Iran di oggi, tra aspirazioni ad una democrazia di tipo occidentale e tendenze al conservatorismo più retrivo, addirittura più arretrato del progetto originario di Khomeyni.
L'autore riassume la storia recente del paese asiatico nelle prime pagine, operando un veloce excursus sull'Iran del primi settant'anni del Novecento. Poi si concentra sulla storia contemporanea, ovvero dalla rivoluzione del 1979 fino ad oggi, con l'avvento al potere di Ahmadinejad, appoggiato dai ranghi dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica) e dalle milizie paramilitari dei bassiji.
Il libro è assai interessante, per districarsi in quell'universo di difficile comprensione che è, sia politicamente che per quanto riguarda il funzionamento delle istituzioni, l'Iran di oggi.
Non mi addentro nei contenuti del saggio, che è già abbastanza difficile sintetizzare nelle circa 180 pagine scritte da Redaelli, ma direi che il concetto fondamentale per comprendere quanto ci viene esposto sia quello del velayat-e faqih, ossia la dottrina che giustifica il governo del clero e sostiene quindi che l'autorità religiosa debba prevalere su tutte le altre istituzioni politiche. Attorno a questo assunto ruotano gli avvenimenti politici del paese negli ultimi trentacinque anni. Vi sono stati momenti in cui ha prevalso l'ortodossia del velayat-e faqih ed altri in cui i movimenti riformisti e più modernisti sono riusciti a mitigare il dominio del clero islamico, rappresentato dagli imam e dagli ayatollah e, ad un livello istituzionale ancora più alto, dal rahbar, la suprema autorità religiosa.
Quello che domina oggi in Iran è, purtroppo, un curioso intreccio di istanze laiche (Ahmadinejad, diversamente da alcuni suoi predecessori, anche riformisti, è appunto un laico) radicalizzate intorno al concetto di un Islam estremista e antioccidentali e di interessi economici, rappresentati dalle classi dei pasdaran e dei bassiji, ormai entrati nei gangli vitali della finanza, dell'economia e del potere.
Una lettura interessantissima e consigliabile.

mercoledì 26 dicembre 2012

Joseph Conrad, La linea d'ombra, Garzanti, 2007, pp. XXXVIII - 126, € 8,00

Romanzo che prende spunto da un episodio autobiografico e che, nella sostanza, non si discosta di molto da quanto già narrato dall'autore diversi anni prima in Tifone. L'esperienza diretta è qui testimoniata anche dall'uso della prima persona nella narrazione, dell'esperienza del primo comando di una nave da parte del protagonista, che si trova a dover fronteggiare prima una interminabile bonaccia, poi la malattia dell'equipaggio e alla fine una tempesta marina. Anche qui, come in Tifone, sono la calma e la forza d'animo, e in più l'aiuto di un collaboratore solido come una roccia (nonostante una malattia al cuore), a tirare fuori dagli impicci il protagonista e a fargli superare quella linea d'ombra che separa la giovinezza dalla maturità. Ma il tono del racconto, in questo La linea d'ombra, è assai più cupo, forse perché il romanzo prende forma ed esce nel 1917, mentre milioni di giovani di tutta Europa si stanno massacrando a vicenda nelle trincee in Francia, Belgio, Italia, Germania, Russia eccetera, e tra loro c'è anche Boris, figlio dello scrittore, al quale il romanzo è dedicato.

venerdì 14 dicembre 2012

Auro Bernardi, Luis Buñuel, Le Mani, 2000, pp. 358, € 19,00
Il libro di Auro Bernardi, recentemente autore dell'ottimo Lo schermo di dio, cinema e pensiero religioso, è un utilissimo riepilogo della vita e dell'arte del grandissimo regista spagnolo. Suddiviso in due parti, nella prima l'autore ripercorre la biografia dell'artista, dalla formazione in una famiglia spagnola tradizionale, ma non ottusa, all'amicizia fraterna con Federico Garcia Lorca e con Salvador Dalì, alla rottura con entrambi, all'esilio dopo la guerra civile, alla fuga in Messico durante la dittatura di Franco, fino agli ultimi anni, quando biografia e filmografia, per fortuna, coincidono.
La seconda metà del libro è dedicata all'analisi dei film di Buñuel, dai primi esperimenti condotti sotto l'egida del surrealismo bretoniano, ad altri lavori realizzati invece sotto l'egida del realismo (un realismo sempre sui generis, comunque), fino ai tanti film realizzati in Messico - con alcuni capolavori assoluti, come El, Nazarin, L'angelo sterminatore, Simon del deserto - e poi con la tranquillità raggiunta negli ultimi anni, vissuti tra Spagna e Francia, anni di altri capolavori del cinema, come Viridiana (girato in Spagna nel 1961), Bella di giorno, La via lattea (amatissimo da parte di Bernardi, che lo ritiene uno dei vertici dell'arte "eretica" del regista spagnolo) e Il fascino discreto della borghesia.
Un libro fondamentale per gli innamorati di Buñuel (come il sottoscritto) e dell'arte cinematografica in generale.

domenica 25 novembre 2012

Sabato sera, domenica mattina

Alan Sillitoe, Sabato sera, domenica mattina, minimum fax, 2010, p. 307, € 12,50

Il sabato sera si può folleggiare, nei limiti che ti consentono i soldi della paga settimanale appena intascata, detratte le tre sterline passate alla mamma per le spese della casa. Ed anche nei limiti dei divertimenti offerti da una città d'infinito squallore: le bevute di birra al pub, le freccette, le scazzottate, le vomitate. Il sabato del villaggio, con i suoi riti e le sue aspettative, in versione proletariato inglese. La domenica mattina è il momento dello hungover, dei postumi della sbornia, il tempo di ripensare all'accaduto (magari ricordarselo), farsi passare il mal di testa e prepararsi alla settimana di lavoro.
Arthur Seaton è un operaio in una fabbrica meccanica di Nottingham, è bravo, ma lavora di nervi e di rabbia. È giovane e bello, si proclama comunista, ha una relazione con una donna sposata (a un proprio collega) e rifiuta pervicacemente il matrimonio. Come viene detto nella prefazione, il romanzo di Sillitoe resta un grande romanzo perché rende l'atmosfera di un'epoca e di un paese, con i suoi riti e i suoi miti, i suoi problemi e i suoi linguaggi. Ma soprattutto perché è scritto bene, con una lingua che rende ragione dei moti interiori dei personaggi, messi a confronto con la realtà della vita. Perfino Arthur, che considera sé stesso quasi onnipotente, dovrà scontrarsi con chi gli farà capire - lo strumento sono le rudi mani di due soldati dell'esercito britannico - che non si può giocare impunemente con i sentimenti altrui. E troverà anche chi, volente o nolente, gli farà mettere la testa a partito e, forse, cambiare idea sul matrimonio.

lunedì 8 ottobre 2012

Adriano Prosperi, L'eresia del libro grande, Feltrinelli, 2011 (2000), pp. 490, € 14,00
La vicenda ricostruita nel libro del professor Prosperi, che porta il sottotitolo Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, può avere come termine iniziale il 1517. Quest'anno è quello della pubblicazione delle famose 95 tesi da parte di Martin Lutero ed è anche l'anno di nascita di Giorgio Rioli, monaco benedettino meglio noto come Giorgio Siculo.
Altro momento importante della vicenda del siculo è la pubblicazione del libro Il beneficio di Cristo, avvenuta nel 1542. Si tratta di un libro fondamentale, in quanto può essere considerato il testo fondativo della riforma italiana, un movimento che prendeva le mosse da alcune istanze portate avanti da Lutero e, in maniera ancora più radicale, da Calvino, in materia di giustificazione della salvezza. Il dibattito sulla giustificazione era nato sull'onda della critica fatta da Lutero alla vendita delle indulgenze, ma investiva ormai un ambito più ampio, prettamente teologico. Esso verteva sulla salvezza dell'uomo dal peccato e dalla sua possibilità di accedere alla vita eterna: detto in poche parole, i luterani (e gli altri protestanti in genere) sostenevano che il sacrificio del figlio di Dio era sufficiente a redimere l'uomo dal peccato, seppure in un contesto di predestinazione (più o meno radicalizzato, a seconda delle differenti dottrine), indipendentemente dalle sue opere; la dottrina cattolica prevedeva invece che l'uomo dovesse collaborare alla propria salvezza, mediante le opere (anche di carità). La discussione affondava le proprie radici nelle controversie dei primi anni del Cristianesimo ed in particolare nella discussione teologica tra Sant'Agostino (propendente per un certo grado di predestinazione) e Pelagio, il quale sosteneva che il sacrificio di Cristo aveva avuto il ruolo di buon esempio, tale da bilanciare il cattivo esempio dato da Adamo con il peccato originale, ma non di salvare di per sé l'uomo, che ha ancora la facoltà di scegliere tra il bene e il male (libero arbitrio).
Altro momento fondamentale, per il pensiero e l'azione del Siculo fu l'indizione, da parte del papa, di un concilio ecumenico (quello che poi passò alla storia come il Concilio di Trento), foriero di grandi aspettative di rinnovamento per la Chiesa e successivamente produttore di grandi delusioni, poiché a conclusione di esso la Chiesa scelse la via della repressione del dissenso, attraverso uno strumento tristemente famoso: il tribunale della Santa Inquisizione.
Ulteriore elemento essenziale per l'uscita allo scoperto di Giorgio Siculo fu un evento apparentemente secondario, oggi totalmente dimenticato, in quanto relativo ad un personaggio che nessuno conosce: la morte del giureconsulto Francesco Spiera, originario di Cittadella, vicino a Padova. Quest'uomo aveva aderito alle idee della Riforma Protestante; arrestato dall'Inquisizione ed obbligato ad abiurare, si pentì di avere abiurato, riconoscendo che la vera fede era quella cui aveva aderito in precedenza e si lasciò morire d'inedia, nella convinzione di essere irrimediabilmente dannato per l'eternità.
Giorgio Siculo cominciò la diffusione del suo pensiero attraverso epistole e discorsi, poi scrisse quello che i suoi discepoli definirono "il libro grande". Nelle sue opere attaccava violentemente i luterani, anche per la teoria della predestinazione ed apparentemente difendeva il papato, ma, presa nel suo insieme, la dottrina del monaco siciliano è una delle eresie più radicali che siano mai state concepite, assai vicina alle tesi anabattistiche (posizioni teologiche che sconfinavano in una visione politica di natura protocomunistica), con un aspetto che rendeva le teorie del Siculo ancora più insidiose: oltre al fatto che il profeta siciliano sosteneva di avere avuto la rivelazione direttamente dal Cristo, egli invitava i suoi seguaci a tacere e a fingere un'apparente adesione alla dottrina ufficiale della Chiesa Cattolica, in attesa di tempi migliori. Tempi che i discepoli del Siculo continuarono ad attendere anche dopo che il loro profeta fu impiccato ed arso sul rogo come eretico, a Ferrara, il 22 maggio 1551, confidando che Giorgio resuscitasse, novello inviato da Dio sulla  terra.
Adriano Prosperi, con prosa elegante, ricostruisce una vicenda che, dopo la condanna del Siculo, la Chiesa cercò di cancellare, distruggendo non solo le opere dell'eresiarca, ma anche i verbali dei suoi processi e perseguendo i suoi discepoli e seguaci fino alla fine del secolo. Il cattedratico della Normale di Pisa adempie alla perfezione al suo compito di storico/ricercatore di documenti talvolta ritenuti perduti e di divulgatore appassionato e competente. Questo libro è una perla preziosa, da leggere per capire qualcosa della nostra Storia e della storia del nostro paese e del nostro pianeta.

mercoledì 3 ottobre 2012

Il potere e la gloria

Graham Greene, Il potere e la gloria, Mondadori, 2002 (1940), pp. 265, € 9,00.

«Semel abbas, semper abbas» dicevano gli antichi. Abate per una volta, abate per sempre. Così sono anche i preti del Messico rivoluzionario degli anni Trenta, dove per decreto governativo è stato abolito il clero, costretto ad abiurare la propria professione di fede e di vita consacrata, avendo come uniche alternative la fuga o la fucilazione. Cattivo prete, il padre Juan, protagonista del Potere e la gloria, decide di resistere e di fuggire di fronte alla determinazione di un tenente della milizia di catturarlo per metterlo al muro. Braccato dalle autorità e perseguitato da un rimorso inamovibile per i gravi peccati commessi, Juan fugge attraverso un paese ostile, che nasconde insidie ad ogni passo, poiché sulla sua testa pende una taglia che fa gola ai campesinos miserabili che incontra sulla sua strada. Considerato un traditore da parte delle autorità messicane, il prete sa di esserlo nei confronti della propria missione sacerdotale e quindi è consapevole di meritare la pena capitale che è stata decretata per lui. Attraverso la figura di questo prete, Greene, inglese convertito al cattolicesimo intorno ai ventidue anni, descrive l'eterna lotta tra bene e male e riscopre la fondamentale tematica religiosa, che attraversa la storia del Cristianesimo in tutta la sua lunghezza - partendo da Sant'Agostino e Pelagio e passando per Lutero ed Erasmo da Rotterdam - della predestinazione e del libero arbitrio.
Il potere e la gloria sono due termini che dovrebbero contraddistinguere rispettivamente lo Stato e la Chiesa, oppure sono due caratteristiche che denotano in negativo il protagonista, miserabile nell'aspetto e nell'animo. Ma questa miseria umana che lo accompagna convive con l'orgoglio, che lui stesso considera un ulteriore peccato, di sentirsi, pur nel pericolo, ancora e sempre un prete: semper abbas, dunque.
Accanto alle tematiche forti, che si appoggiano ad un personaggio particolare (che abbina ai difetti consueti del clero secolare la degradante assuefazione all'alcol), inserito in un contesto storico del tutto eccezionale, si spande la maestria artistica dello scrittore, che si insinua come un pungolo dentro la psiche e dentro l'anima del protagonista, e culmina in pagine d'inusitata potenza, come quelle in cui è descritta la notte trascorsa dal protagonista in carcere, fra tentazioni di cedere alla paura e pulsioni al martirio, o quelle nelle quali si vede il prete costretto dalla fame a massacrare di bastonate una povera cagnetta scheletrica e malata per sottrarle l'osso che stava sgranocchiando.

lunedì 27 agosto 2012

La guerra dei Trent'anni

Georg Schmidt, La guerra dei Trent'anni, Il Mulino, 2008, p. 129, € 11,00
Ricostruzione sintetica della Guerra dei Trent'anni (1618-1648), che fu combattuta soprattutto su territorio tedesco, tra eserciti variopinti (all'epoca l'uso delle uniformi era un'eccezione) e di svariatissima provenienza e conformazione (truppe nazionali e mercenarie). Per sintetizzare grossolanamente, si confrontarono militarmente, da una parte gli eserciti dell'Impero Asburgico, insieme a quelli degli stati tedeschi di fede cattolica (primo tra tutti la Baviera), fiancheggiati - seppure non affiancati - dalle truppe spagnole e, dall'altra parte, le milizie degli stati tedeschi protestanti (quelli del nord: Prussia-Brandeburgo, Sassonia ecc.) e la Svezia, con l'assistenza, più economica che militare, della cattolica Francia, in funzione antispagnola.
Il ruolo dello storico, come afferma l'autore nella Premessa, è quello di far comprendere i nessi tra i fatti, in particolare durante un periodo trentennale di guerre e paci temporanee. E Schmidt questo lo fa bene, smitizzando l'idea di una guerra di religione, o comunque solo di religione. Nella sequenza poco interrotta di conflitti - che si conclusero soltanto nel 1648, con la cosiddetta Pace di Vestfalia - che insanguinarono la Germania della prima metà del Seicento, concorsero motivi indubbiamente religiosi, ma anche tendenze indipendentiste rispetto all'autorità imperiale, rivendicazioni politiche da parte di principi che ambivano ad influenzare la politica imperiale (anche in ambito latamente religioso), controversie dinastiche e conflitti per l'egemonia europea (come quello, collaterale alla Guerra dei Trent'anni, ma importantissimo per le sue sorti, tra Spagna e Francia). Alla fine, Schmidt analizza le terrificanti conseguenze, in termini di perdite umane ed economiche, della Guerra sui territori che ne costituirono il teatro. Il bilancio, pur con le sue peculiarità, è terribile, come quello di tutte le guerre, con il surplus della durata trentennale.

Il cinema americano attraverso i film

AA.VV., Il cinema americano attraverso i film (a cura di Leonardo Gandini), Carocci, 2011, p. 218, € 18,00
Interessantissima collettanea panoramica su più di ottant'anni di cinema americano, da The General (1926) di Buster Keaton a Inception (2010) di Christopher Nolan. I film analizzati sono soltanto dodici, cosa abbastanza comprensibile per un repertorio condensato in poco più di duecento pagine. Tutti i titoli presi in considerazione sono comunque, per qualche verso, rappresentativi di tendenze in corso oppure significativi per il ruolo di rottura nei confronti delle regole codificate a Hollywood e dintorni.
A tenere il filo dei vari saggi (particolarmente originale quello di Lisa Trahair, che propone un'interpretazione di The General e del cinema di Buster Keaton in generale alla luce della filosofia stoica), ci pensa l'introduzione del curatore, che delinea i tratti caratteristici del cinema americano. Tra i quali, Gandini individua un elemento sul quale non tutti sono sempre d'accordo, ovvero l'essenza di ogni film, che si estrinseca nel confluire di più contributi e non è mai il puro e semplice prodotto intellettuale del regista. Molto più che quelli degli altri paesi, "i film americani" sono frutto dei condizionamenti della produzione, oltre che del lavoro degli altri operatori, tecnici ed artistici (dal montatore allo scenografo, ai responsabili degli effetti speciali), che collaborano sempre e dovunque a comporre il mosaico finale.

Il sorriso dell'ignoto marinaio

Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio, Mondadori, 2004 (1976), p. XVII + 175, € 9,00.
«Metaromanzo o antiromanzo storico», come lo definì lo stesso Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio si snoda con due elementi a fare da perni. Uno è il celebre dipinto di Antonello da Messina che dà il titolo al romanzo e l'altro è l'impresa siciliana dei garibaldini del 1860,  con le conseguenti aspettative di rivalsa e di libertà (nel senso dell'omonimo, bellissimo, racconto del Verga, ispirato ai fatti di Bronte), suscitate dalla spedizione dei Mille nell'animo della povera gente.
La struttura è quella del superamento del romanzo tradizionale, perché Consolo rifiuta una struttura lineare, divaga ed inserisce nella narrazione documenti d'epoca, opportunamente manipolati. E, se il risultato non è di quelli che esaltano il lettore sotto l'ombrellone, fondamentale è il contributo del Sorriso al rinnovamento del romanzo italiano.

sabato 21 luglio 2012

Auro Bernardi, Lo schermo di Dio

Auro Bernardi, Lo schermo di Dio, Le Mani, 2011, p. 195 € 16,00
Dunque (lo so che non si dovrebbe iniziare così un discorso), due italiani, due francesi, due danesi, uno spagnolo, un inglese, un polacco e un egiziano. Totale, nove europei, un africano e nemmeno un cineasta americano, in questa breve, magari parziale (manca Bergman e Bernardi sente la necessità di giustificare la sua assenza), rassegna di autori, relativa a Cinema e pensiero religioso, come recita il sottotitolo.
Non c'è da sorprendersi, soprattutto se si tiene conto di quanto scrive anche Leonardo Gandini, citando il critico americano Robert Ray, nell'Introduzione del recente volume Il cinema americano attraverso i film (Carocci, 2011), «"la tradizione dominante del cinema americano trova costantemente dei modi per avere ragione delle dicotomie", al punto che "il modello complessivo della mitologia americana" può essere individuato nel "rifiuto della necessità di una scelta"». E la ricerca di Dio quale bene infinito (almeno per come intendiamo Dio nell'accezione comune, ma anche teologica) comprende, come uno dei suoi momenti fondamentali, la scelta tra Bene (Dio) e Male (Satana, il peccato), magari attraverso quel concetto sempre discusso che risponde al nome di libero arbitrio.
Se nel cinema americano, di cui non dobbiamo dimenticare l'intima essenza di industria, principalmente quello classico, è più la necessità che la scelta a dominare gli eventi, è proprio della migliore tradizione del cinema europeo andare alla ricerca del sacro e interrogarsi sui confini del Bene e del Male, per discutere, talvolta fino al parossismo, dello scibile religioso, in maniera più o meno esplicita, più o meno criptica, dando adito ad interpretazioni diametralmente opposte, in alcuni casi perfino fuorvianti.
Auro Bernardi, ovviamente, esclude autori americani non per la loro provenienza geografica, ma in quanto tematicamente non rispondenti all'oggetto del suo libro, che si suddivide in tre parti, la prima dedicata a quei registi che l'autore chiama "i precursori" (Buñuel, Dreyer e Bresson), la seconda sui "teosofi" (Olmi, Godard e Chahine) e la terza, dedicata ai registi definiti "i predicatori", (Bellocchio, Greenaway, Kiéslowski e Von Tier). Di ogni autore analizza un film in particolare (per esempio, La via lattea per Buñuel, centochiodi per Olmi e Il Decalogo per Kiéslowski), senza tuttavia perdere di vista il complesso dell'opera di ciascun autore, nel quadro di una migliore comprensione del significato dei singoli film e della poetica dei registi esaminati. Particolarmente interessanti le analisi di alcuni cineasti da scoprire (Chahine) o da riscoprire, come Greenaway e Kiéslowski, un tempo osannati da tutti, oggi quasi dimenticati, se non dai cinefili più competenti.

sabato 14 luglio 2012

Joseph Conrad, Tifone

Joseph Conrad, Tifone, Einaudi, 2007, pp. 103, € 7,80.

Romanzo breve, almeno parzialmente autobiografico, come la maggior parte delle opere d'ambiente marinaresco dello scrittore d'origine polacca. Si tratta di un racconto che celebra la solidità di carattere di un comandante di una nave colpita da un violento tifone nel Mare Cinese. Mentre gran parte dell'equipaggio è messo fuori combattimento dalla forza degli elementi o perde la testa, il capitano MacWhirr, coadiuvato dai due collaboratori Jukes e Rout, riesce a tenere insieme l'imbarcazione sotto i ripetuti attacchi del tifone e a condurla, ormai ridotta ad un catorcio, in porto.

Con un linguaggio piano e calmo, che contrasta con la potenza dell'evento atmosferico descritto, Tifone si configura come un elogio delle virtù del buon comandante - che sa ascoltare prima di impartire ordini - e del buon funzionario dell'Impero Britannico.

sabato 7 luglio 2012

Vincenzo Consolo - Retablo

Vincenzo Consolo, Retablo, Mondadori, 1987 (2009), pp. 158, € 8,00.


Fuga e ricerca s'intrecciano in questo romanzo - viaggio di un pittore lombardo nella Sicilia settecentesca degli altari barocchi del Serpotta (che compare anche come personaggio), tra aggressioni dei briganti e strabilianti scoperte archeologiche, destinate a finire sui fondali marini.
Retablo è un romanzo di non formazione (il protagonista, alla fine, ammetterà di essere rimasto uguale a prima dell'avventura siciliana), raccontato da Consolo con linguaggio colto e popolare spesso, barocco sempre, con grande quantità di elencazioni (basta aprire una pagina a caso: «Lungo quella strada ancora s'aprivano botteghe, caffè, bottiglierie, ove servivano infusi, rombo, cioccolata, sorbetti, neve con gli sciroppi, miele di Xitta.», p. 135), come se la Sicilia, più che un luogo, un'isola, una nazione, fosse una somma di oggetti, una matassa, un retablo.

venerdì 8 giugno 2012

Thick As A Brick 2

Jethro Tull's Ian Anderson - Thick As A Brick 2 - What Ever Happened To Gerald Bostock? (2012)

Da irriducibile fan dei Jethro Tull, il dilemma atroce che mi si pone di questi tempi (so bene che in questo periodo vi è assai di peggio che arrovellarsi su simili questioni di lana caprina...) è se Thick As A Brick 2 sia un album dei Jethro Tull o meno. Perché mi si pone questo interrogativo? («Perché non hai niente di meglio da fare!» risponderanno i miei piccoli lettori. E invece...) Per il semplice motivo che l'album di cui sopra non mi piace e non piace praticamente a nessuno: solo per fare un esempio, Andrea Vascellesi, recensendolo sul sito ondarock.it, scrive che «è l'ennesimo prevedibile album dei Jethro Tull di cui potete fare a meno». Ma è proprio questo il punto: si tratta di un album dei Jethro Tull? Secondo me, no. Non lo è, anche se i recensori lo trattano come tale e addirittura lo stesso Vascellesi utilizza TAAB2 (come viene definito l'album per brevità) per affermare che esso «ufficializza ciò che in fondo si è sempre saputo: i Jethro Tull sono Ian Anderson». Ma, al di là di questa affermazione, che mi sembra difficilmente discutibile, l'interrogativo che ho posto rimane ed è, secondo me, importante dare una risposta.
Nessun altro membro dei Jethro Tull, neanche il fido chitarrista Martin Barre, avrebbe potuto arrogarsi il diritto di pubblicare il seguito di un album da annoverare tra i capolavori del rock anni '70, come il Thick As A Brick del 1972. E quindi lungi da me l'idea che non si possa confrontare il disco di quest'anno con la lunga suite di cui costituisce il "seguito". È stato proprio Anderson a riallacciare il suo cd del 2012 al primo TAAB, sottotitolandolo addirittura Che fine ha fatto Gerald Bostock? (riferendosi al giovane poeta che quarant'anni fa fu presentato come il supposto autore dei testi) e se ne deve assumere le conseguenze. La principale delle quali è proprio l'impari confronto con l'album del '72, geniale ed originale impasto di rock chitarristico e musica rinascimentale. Però, un conto è inserire un disco nella discografia dei Jethro Tull, tra pietre miliari come Stand Up (1969), Benefit (1970) ed Aqualung (1971), un altro e diverso discorso è annoverarlo tra gli album solisti di Anderson, al fianco di opere non certo fondamentali come The Secret Language Of Birds (2000) e Rupi's Dance (2003). A parere mio, è questa seconda opzione ad essere quella giusta, per almeno due motivi.
Il primo consiste nella ragione sociale dichiarata fin dalla copertina dell'album di quest'anno, il cui autore non sono i Jethro Tull di Ian Anderson (come sembra voler intendere la critica, di cui è esempio il competente Vercellesi), bensì "Jethro Tull's Ian Anderson", cioè Ian Anderson dei Jethro Tull. Sarebbe come dire - e lo si diceva anni fa in Italia, dove quel cantante divenne famoso proprio così - che un disco era di "Mal dei Primitives". Cioè l'album era di quel Mal, anche se il suo gruppo non esisteva più e comunque il suo cantante non ne faceva più parte. Ecco, sarebbe caso mai da domandarsi se i Jethro Tull esistano ancora quale gruppo con un'autonoma attività discografica (non si fanno vivi, in questo senso, dai tempi del poco significativo Christmas Album del 2003). Ma questo è un altro discorso.
Il secondo motivo è che in TAAB2 non ha suonato proprio Martin Barre, colonna portante dei Jethro Tull a partire dal secondo album, Stand Up (1969). Qui sostituito dal chitarrista tedesco Martin Opahle, Barre fa tuttora parte integrante dei Jethro Tull, insieme al batterista Doane Perry, che pure non ha partecipato alla realizzazione del cd del 2012. È pur vero che in TAAB2 suonano sia il bassista che il tastierista dell'attuale formazione dei Jethro Tull ed è pur vero anche che Ian Anderson aveva annunciato l'uscita dell'album attraverso il sito ufficiale della band, ma si deve prendere atto, come fa anche Wikipedia - sito enciclopedico che oramai fa testo -, che quest'album fa parte della discografia solista di Anderson e non dei Jethro Tull. Circostanza, quest'ultima, confermata anche dal sito ufficiale del gruppo britannico che, nonostante ormai abbini nell'intestazione il nome dell'agronomo del XVIII secolo a quello del polistrumentista scozzese, annovera tra gli album di studio della band quelli che vanno da This Was (1968) al citato Christmas Album del 2003.
Detto questo, si deve sottolineare come TAAB2 non sia un disco riuscito, dove a parte qualche pezzo in cui fa capolino l'hard rock dei tempi migliori (niente di originale, in ogni caso) e qualche bella flautata che cita il vecchio disco (per esempio in Old School Song), tutto o quasi è già sentito e pur non suonando moderno, non ha neppure il fascino dell'antiquariato o del vintage. E la mia impressione è che Ian Anderson non abbia più la voce idonea a continuare un'attività rockistica (anche per i problemi alle corde vocali di cui si vociferava una decina di anni fa), un po' come il collega Ian Gillan dei Deep Purple, che già da almeno un paio di lustri o tre ha dovuto rinunciare a cantare dal vivo cavalli di battaglia come Child In Time e Strange Kind Of Woman.

venerdì 1 giugno 2012

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, 2001, p. 192, € 7,90

Nel penitenziario situato su un'isoletta del Mediterraneo, alla metà di un Ottocento più verosimile che reale, quattro congiurati di alto livello stanno aspettando l'alba, quando verrà eseguita la loro condanna a morte, per avere cospirato contro la monarchia borbonica. Per passare la nottata, i quattro, che nel frattempo sono trasferiti nella cella dove già si trovava un altro prigioniero, un criminale comune anch'egli condannato alla pena capitale, decidono di raccontare ciascuno la propria storia. Ma sui morituri incombe un'altra promessa/minaccia, fatta dal direttore del carcere, nonché governatore dell'isola, Consalvo De Ritis soprannominato Sparafucile: se anche uno solo dei quattro, in segreto, scriverà su un pezzo di carta la vera identità del potente e misterioso capo della congiura antimonarchica, conosciuto con il nome in codice di Padreterno, sarà data salva la vita a tutti loro.
Le menzogne della notte possono rivelarsi ingannevoli per i protagonisti, ma anche per gli aguzzini, in questo romanzo, breve ma denso, del 1988 che, nella tecnica, ricorda la novellistica classica italiana che ha come maggiore esempio il Decameron, ma anche un capolavoro del cinema come Rashomon di Kurosawa, sorto dall'adattamento di due racconti dello scrittore Akutagawa (per i più giovani, si potrebbe rimandare all'esempio del più recente I soliti sospetti, successivo rispetto a Le menzogne della notte), in una struttura narrativa che, più che a cornice, è stata definita dallo stesso Bufalino come un fiume con i suoi affluenti, in quanto i singoli racconti dei vari personaggi confluiscono nel troncone della trama principale. Ma il meglio del romanzo, pur avvincente e sorprendente nei suoi sviluppi narrativi, consiste nella massa di riferimenti alla cultura sette-ottocentesca, dalla letteratura alla musica alla pittura.
Bufalino è uno scrittore di alta letteratura (com'è stato definito dal libraio da cui ho acquistato il romanzo), al tempo stesso enciclopedico e profondo. che adopera un linguaggio barocco e dà piena soddisfazione al lettore esigente.

lunedì 14 maggio 2012

Il paese dei buoni e dei cattivi

Federica Sgaggio, Il paese dei buoni e dei cattivi, minimum fax, 2012, pp. 301, € 15,00
«Sono anni che la stampa italiana mi sembra impegnata più a indignarsi che a informare. Cominciò la Fallaci, gran maestra dell'indignazione moralistica; e poi tutto uno stuolo di imitatori e imitatrici, tra le quali una delle grandi (e sublimi) eredi mi sembra ormai Barbara Palombelli (lo smontaggio della sua mefitica lettera a Sarah Scazzi è uno dei pezzi forti di questo saggio). È la schiera eletta degli opinionisti, quelli che hanno opinioni su tutto, prodotte peraltro con sbalorditiva rapidità» (Umberto Rossi, PULP #94).

Il libro di Federica Sgaggio non è, a mio parere, privo di difetti, anche se è meritorio nel denunciare quanto indica Umberto Rossi nella sua recensione ed a smontare una serie di "retoriche" che oggi ormai vanno per la maggiore sui giornali, assai spesso a sproposito, a cominciare dall'odiosa e brunettiana "retorica della meritocrazia". I difetti sono essenzialmente quello di un eccessivo Verona-centrismo ed Arena-centrismo (la Sgaggio è giornalista dell'Arena di Verona), un fissare la propria attenzione soprattutto sul quotidiano La Repubblica nell'indicare i difetti denunciati, un attacco continuo, di sapore alquanto snobistico, nei confronti dei giornalisti e degli scrittori di maggior successo dei nostri tempi (Saviano, Travaglio, Stella), un eccessivo rilievo concesso alle edizioni online dei quotidiani, che spesso sono cosa molto diversa dall'edizione cartacea (dove, per esempio, sono spesso presenti voci diverse, spesso non concordanti, sul medesimo argomento), una concentrazione, meritoria ma talvolta quasi eccessiva, sulle parole usate dai giornali (anche se bisogna ricordare che, come avvertiva Nanni Moretti in Palombella rossa, «le parole sono importanti»).
Con tutto ciò, si tratta di uno stimolo fondamentale, per aiutarci a non accettare supinamente quanto ci viene propinato dalle testate giornalistiche e a d una loro ed a leggere in maniera critica gli articoli di giornale.

43 anni

Adriano Sofri - 43 anni (gratis)
Nell'occasione dell'uscita del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, che rievoca il clima in cui avvenne la strage di Piazza Fontana, Sofri scrive di getto un libro, lo mette in rete a disposizione di tutti, gratuitamente. È una lettura assai interessante, che mette i puntini sulle i riguardo al film di Giordana, ma soprattutto in relazione al libro di tale Paolo Cucchiarelli che, molto presuntivamente, avrebbe ispirato il lungometraggio. Riguardo al film, 43 anni critica soprattutto l'adozione della tesi (che tuttavia Giordana non sposa completamente) della doppia bomba all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura, ma critica serratamente, fino a ridurlo un colabrodo, il libro di Cucchiarelli. Ne esce un quadro assai più consono alla realtà dei fatti dell'epoca ed un ritratto più limpido di una delle vittime della strage - anche se morì tre giorni dopo - cioè Giuseppe Pinelli, che si tentò di far passare almeno come connivente alla strategia bombarola, ma che in realtà fu, con il suo gruppetto della Bovisa, completamente estraneo non solo alla bomba, ma a qualsivoglia pratica di violenza.
Il libro si può scaricare qui.

domenica 15 aprile 2012

Masolino D'Amico, La commedia all'italiana, Il Saggiatore, 2008, pp. 302, € 10,00
Testo ormai classico su un segmento costitutivo del cinema italiano. Come avverte l'autore nella Premessa, il tono è, a tratti, didascalico, poiché ricalca alcune lezioni tenute da Masolino D'Amico negli Stati Uniti, in favore di studenti americani, che non conoscevano approfonditamente il nostro cinema e la nostra società.
D'Amico traccia i tratti caratterizzanti della commedia all'italiana ed i suoi termini cronologici. E se l'autore comincia il suo excursus dal dopoguerra, periodo in cui dominavano comici provenienti dal teatro di rivista come Macario e Totò, l'epoca classica della commedia all'italiana comincia con l'affermarsi di talenti come Sordi, il Gassman comico, Tognazzi e Manfredi e sostanzialmente va da I soliti ignoti (1958) di Monicelli a C'eravamo tanto amati (1974) di Scola, con il sigillo messo da La terrazza (1980), sempre di Scola, sull'impossibilità di continuare a fare quel tipo di commedia durante gli anni di piombo.
Quanto agli elementi caratteristici della commedia all'italiana, non si può non considerare, almeno quale punto di partenza, la definizione datane dallo stesso D'Amico: «un certo tipo di satira, di costume e anche, seppure non sempre esplicitamente, politica, dall'impianto realistico e molto attenta ai fatti del giorno, con qualche puntata nella storia "scomoda" del paese».

lunedì 9 aprile 2012

Roland H. Bainton, Vita e morte di Michele Serveto, Fazi, 2012, pp. XXXIV-292, € 18,50
Introdotto da Adriano Prosperi - probabilmente il maggior storico italiano vivente, in relazione alle problematiche religiose del Cinquecento - ecco uno dei libri più importanti dello studioso americano Bainton (1894-1984), soprattutto perché l'eretico spagnolo assurse a grande importanza in virtù della propria morte, avvenuta sul rogo nel 1553 a Ginevra, ad opera dei Riformati di Giovanni Calvino, ma senza che le sue idee fossero adeguatamente studiate. Esse, invece, ebbero grande importanza, soprattutto sugli eretici italiani, a cominciare dall'influenza che esercitarono sui due eretici senesi Lelio e Fausto Sozzini (zio e nipote).
Bainton compie una sintesi mirabile tra racconto della vita (e della morte) del teologo spagnolo Miguel Servet (1511-1553) e l'analisi delle sue opere principali, il De trinitatis erroribus (Gli errori della Trinità) e la Christianismi restitutio (Il ripristino del Cristianesimo).
Alfiere anche in patria (gli Stati Uniti d'America, dov'era giunto ad appena otto anni dalla natia Inghilterra) della tolleranza religiosa e del dialogo tra le diverse confessioni (egli era ministro Congregazionalista, anche se mai esercitò le funzioni di pastore), Bainton non poteva che provare umana comprensione per Serveto, non fosse altro che per la terribile fine cui fu condannato, proprio da coloro che definivano Anticristo il papa di Roma. E il teologo navarrino costituì l'oggetto di una delle quattro grandi biografie di Bainton, insieme ad Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero e Bernardino Ochino (da Siena).

venerdì 30 marzo 2012

Eretici italiani del Cinquecento

Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Einaudi, 2009, pp. LXII-527, € 23,80
Questa di Cantimori è un'opera fondamentale per la storiografia italiana del Novecento, soprattutto per chi voglia sapere di più riguardo alla storia di quella che allora - nel '500 - era un'espressione geografica e che oggi si chiama Italia, ma anche per chi voglia conoscere di più in materia di storia della teologia, dell'Europa, di circolazione delle idee e, in sostanza, della libertà, per come la intendiamo nella nostra epoca.
Eretici italiani del Cinquecento è una miniera nella quale si fatica ad enucleare qualche singolo tema, perché il filone scoperto da Cantimori è quasi inesauribile.
I nomi degli eretici di cui parla il libro - Giorgio Siculo, Bernardino Ochino, Giorgio Biandrata, Celio Secondo Curione, Sebastiano Castellione, Lelio e Fausto Sozzini ed altri - sono accomunati, oltre che dai natali italici (eccettuato Castellione, che era savoiardo), dall'essere degli intellettuali di matrice umanista, dall'adesione agli ideali della riforma protestante nelle sue diverse configurazioni e da una grande fede. Non sarebbe spiegabile altrimenti che con quest'ultimo aspetto il loro assoggettarsi alle persecuzioni della Chiesa cattolica e delle neonate chiese protestanti nonché il continuo peregrinare per mezza Europa, in cerca di un sovrano tollerante nei confronti del dissenso religioso.
I punti fondamentali della trattazione del libro fanno perno, cronologicamente, sulla condanna a morte e il conseguente rogo di Michele Serveto a Ginevra, ad opera dei Riformati di Giovanni Calvino e, logicamente, sulle speranze di libertà religiosa suscitate dalla Riforma protestante. Se da un lato, infatti, gli scritti di Serveto (il De Trinitatis erroribus e la Christianismi Restitutio) ebbero influenza soprattutto sui "protestanti" italiani - e per nessun altro paese come l'Italia era ed è valido il detto latino tot capita tot sententiae - e quindi tanto più grande fu l'impressione della sua esecuzione su chi fuggiva dall'Inquisizione romana, dall'altro punto di vista grandi furono le aspettative suscitate da un movimento religioso che si proponeva di basarsi rigorosamente sulle sacre scritture. Dove, per esempio, proprio a partire dal Serveto (ma era una posizione già emersa durante i primi anni del Cristianesimo), non veniva rintracciato il dogma della Trinità. Le tendenze anabattistiche che partono dal Serveto e passano per il Gribaldi trovarono terreno fertile tra gli italiani e posero le premesse per le rivendicazioni relative alla libertà religiosa e di pensiero, che animeranno la discussione filosofica nei due o tre secoli seguenti.
Grande storico, quasi un pioniere per il campo di ricerca scelto, Cantimori, umanista del XX secolo, tratta metodicamente le principali figure di eretici - tali sia per i cattolici che per i protestanti - tra le quali sembra di scorgere una certa qual predilezione per le figure ed il pensiero del senese Lelio Sozzini e del suo nipote e divulgatore Fausto, diffusore del pensiero «eretico» sociniano nel regno di Polonia, paese allora ricettivo delle idee che propugnavano un rinnovamento del cristianesimo, dopo che si era rivelato impossibile quello della Chiesa romana.

venerdì 24 febbraio 2012

La solitudine del maratoneta

Alan Sillitoe, La solitudine del maratoneta, minimum fax, 2009, p. 223, € 11,50.
Colin Smith corre perché gli viene naturale e perché lui e tutti quelli della sua razza sono abituati da sempre a correre per scappare dai poliziotti. Questa spiegazione, data dal protagonista del racconto lungo che dà il titolo alla raccolta, offre il senso della scrittura di Sillitoe e descrive i suoi personaggi. Infingardo e bugiardo, Colin è un proletario disgraziato, ma furbo, e infatti rifiuta di prendere il posto in fabbrica che era stato di suo padre, morto con i polmoni marciti per i veleni respirati. Ha una visione chiara e disincantata della realtà, e preferisce avere a che fare con i poliziotti, che lo odiano e lo trattano con reciproco disprezzo, piuttosto che con gli ipocriti rappresentanti della borghesia britannica, come il direttore del riformatorio, che tentano mellifluamente di piegarlo ai propri scopi. Ma Colin preferisce spezzarsi piuttosto che aderire ai valori che gli vengono subdolamente imposti. Gli altri racconti della raccolta sono quasi tutti all'altezza del primo e più famoso: tutti i personaggi cui dà vita Sillitoe sono dei ribelli individualisti e come tali scontano la solitudine tipica del maratoneta in fuga.

sabato 28 gennaio 2012

Rashômon e altri racconti

Ryunosuke Akutagawa, Rashômon e altri racconti, TEA, 2002, pp. 304, € 9,00
Akutagawa (1892-1927) fu uno scrittore, la cui breve parabola artistica coincise con la sua breve vita: probabilmente rendendosi conto di star perdendo l'ispirazione, si suicidò ad appena trentacinque anni. E questo elemento tragico potrebbe anche suonare contraddittorio, se si considera che Akutagawa era un giapponese che si era convertito al cristianesimo. Non tutti i racconti di questa raccolta raggiungono lo stesso livello e, essendo stati composti in periodi lontanissimi, affrontano le tematiche care all'autore - sinteticamente, l'estrema difficoltà di afferrare il senso della vita (non ci scordiamo che Akutagawa fu un contemporaneo di Kafka) - con stili diversissimi: così, per citare soltanto i racconti che mi sono sembrati i suoi migliori, si passa dall'estremo realismo di Rashômon e Nel bosco (fondendo i quali Akira Kurosawa genialmente compose la sceneggiatura del suo primo grande successo internazionale) alle atmosfere satiriche e fantastiche di Toshishun e Nel paese dei Kappa. Molto significativo, per comprendere l'approccio cristiano alla vita di Akutagawa, anche il bel racconto Il Gesù di Nanchino, dove una giovane prostituta malata di sifilide, grazie al suo proposito di non accoppiarsi più con gli uomini per non essere causa di morte, viene riscattata da un redivivo Gesù, materializzatosi sulla Terra sotto la forma di un giovane puttaniere americano. Per dirla tutta, l'esperienza di lettura di questa raccolta di racconti non è stata esaltante come avrei sperato - ma non è stata l'unica delusione che ho ricevuto in quest'ultimo periodo - però il libro di Akutagawa tutto sommato appaga il lettore curioso di capire di più di una cultura che, nonostante tv e cinema, conosciamo ancora poco.

New Maps Of Hell

Bad Religion, New Maps Of Hell, 2007.
«Welcome to the new dark ages
I hope you're living right
These are the new dark ages
And the world might end tonight»
(New Dark Ages)
(Benvenuti nei nuovi tempi bui, spero che conduciate una vita giusta. Questi sono i nuovi tempi bui, e il mondo potrebbe finire stanotte)
Bad Religion sono grandi perché se ne sbattono delle mode e delle tendenze musicali e paramusicali. Tanto per dire, ai concerti, dopo due ore di sudate, non concedono bis e nei dischi non inseriscono bonus néhidden tracks. Questo New Maps Of Hell procede sulla strada dei migliori Bad Religion, quelli di Against The Grain (1991), Generator (1992) e Recipe For Hate (1993), nel solco dei vecchi lavori della band, ripreso con il penultimo album The Empire Strikes First del 2004. I singoli pezzi sono tutti validi, e la perizia tecnica con la quale sono suonati fa sì che si apprezzino meglio dopo ripetuti ascolti, che valorizzano i continui cambi di ritmo - caratteristica che costituisce una indubbia evoluzione rispetto alle origini del punk - e perfino i coretti di sottofondo (gli oozin oohs and aahs, come li definisce il libretto), ci si rende conto, sono più apocalittici che enfatici. Inutile citare le singole canzoni (vabbe', cito New Dark Ages, perché si può ascoltare qui): non c'è una 21st Century Digital Boy, una Generator o una American Jesus, che spicchi sulle altre. New Maps Of Hell costituisce comunque una salda roccia nel mare della musica contemporanea.

Canto n. 6

Canto n. 6
Io come Orlando
corro nudo e furioso
nella pioggia.
Non canto cavalier né canto armi
né amori o donne
ma soffro e offro la testa
ai sassi e al boia
e alla sua scura scure
che semi di buio pianti
nel giardino dei miei occhi.Opera di Charles Keegan

Screaming For A Love-Bite

Accept - Screaming For A Love-Bite (dall'album Metal Heart, 1985)
Screaming for a love-bite
And you hide it, that it makes you feel alrightMetal Heart
See your secret in a mirror
It's black'n'blue and it happened to you
In the heat of the night

It hurts just the first time
Ooh, it hurts
It hurts just the very first time

Screaming for a love-bite
For a love-bite
Hiding that it feels right
Screaming for a love-bite

Grinding makes so uptight
And you gotta face it, 'cause it decorates your neck
It's gonna stay there
Stay there for a long time
Just to remind you while you like it
When you went on and on

It hurts just the first time
Ooh, it hurts
It hurts just the very first time

Screaming for a love-bite
For a love-bite
Hiding that it feels right
Screaming for a love-bite
Screaming for a love-bite ...

Trad. it. (mia): Urli per un morso d'amore - e te lo nascondi, che ti fa sentire bene - Vedi il tuo segreto in uno specchio - è nero e blu ed è successo a te - nel bel mezzo della notte.
Fa male solo la prima volta - Oh, se fa male - fa male solo la primissima volta.
Urlare per un morso d'amore - per un morso d'amore - nascondersi che ci si sente bene - urlare per un morso d'amore.
Stridere i denti rende molto tesi - e lo devi fronteggiare, perché ti decora il collo - e resterà lì - ci resterà a lungo - proprio per ricordarti quanto ti piaceva - mentre ci davi dentro.
Fa male solo la prima volta - Oh, se fa male - fa male solo la primissima volta.
Urlare per un morso d'amore - per un morso d'amore - nascondersi che ci si sente bene - urlare per un morso d'amore.

Brighter Than A Thousand Suns

Una delle traduzioni di canzoni più difficili che mi sia mai capitato di fare. A riprova che i testi degli Iron Maiden non sono mai banali. Comunque ci provo, anche perché in rete non sono riuscito a trovare un'altra traduzione.
Iron Maiden - Brighter Than A Thousand Suns
Noi non siamo i figli di Dio
Non siamo più il Suo popolo eletto
Abbiamo deviato dal sentiero su cui Lui ha camminato
Proveremo il dolore del Suo inizio
Dita d'ombra si sollevano in alto
Dita di ferro pugnalano il cielo deserto
Oh, ecco il potere della Terra
I vostri figli sono pronti per la caduta?
Serrando bene le mani giunte
Radete al suolo una città, costruite un inferno vivente
Partecipate alla corsa al suicidio
Ascoltate i rintocchi della campana
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Questo sole giallo è il gemello cattivo
nel nero i venti lo liberano
A un assedio si squarcia una vampata nucleare
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Fuori del buio, più splendente di mille soli.
Seppellendo i nostri principi morali, seppellendo i nostri morti
Nascondendo la nostra testa sotto la sabbia
E=mc², non si riesce a collegare
Come abbiamo fatto Dio con le nostre mani
Qualsiasi cosa abbia detto Robert al suo Dio
Sull'aver fatto la guerra al Sole
E=mc², non si riesce a collegare
Come abbiamo fatto Dio con le nostre mani
Medagliette di Satana
Tutte le nazioni si stanno sollevando
Attraverso campane acide d'amore e odio
L'incertezza ci ha ridotto così.
Tutte le nazioni si stanno sollevando
Attraverso campane acide d'amore e odio
Confusione e Furore
Questo corpo li ha portati giù invano
Io predicavo una piccola preghiera
Nel bunker in cui moriremo
Siamo i boia che mentono
Bombardieri lanciati senza possibilità d'essere richiamati
Brevissimo avvertimento sullo sganciamento del missile
Date un'occhiata al vostro ultimo giorno
Immaginando che non avrete il tempo di piangere
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Fuori dal buio...
Fuori dal buio...
Fuori dal buio, più splendente di mille soli
Padre santo abbiamo peccato...

Poesiola natalizia

Poesiola natalizia

di sasso67 (24/12/2005 - 23:10)

S'i' fossi foco
arderei una scurreggia
per veder se davvero
fa la fiammata.
(Che poi non è nemmeno molto natalizia, ma che colpa ho io se m'è venuta proprio per la vigilia di Natale?)

Cuori neri

Luca Telese, Cuori neri, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 796 ill., € 18,00
Al di là dell'argomento trattato e al di là della forma - che, secondo me, avrebbe potuto essere migliore - quello che piace di questo libro è la morale finale che ne emerge. La quale potrà anche essere tacciata di buonismo, ma oggi, nel 2006, è eticamente e politicamente inoppugnabile. E si può sintetizzare in questa frase che Telese pone alla fine del suo monumentale libro (p. 764): «Siamo stati, non molto tempo fa, talebani anche noi. E il nostro fanatismo di allora non ha nulla da invidiare a quello che ci piace contestare agli altri oggi. Cambiano i soggetti contro cui sono rivolte, non gli strumenti intellettuali con cui vengono forgiate le armi dell'odio».
Al di là delle polemiche sterili sul fatto che sia necessario anche un libro sulle vittime "di sinistra" degli anni di piombo (e probabilmente ve ne sono), va detto che questo libro era innanzitutto doveroso, in primo luogo verso la memoria degli stessi morti (non li chiamerei né caduti né martiri) e verso le loro famiglie che in tutti questi anni hanno vissuto il dolore di una perdita (o più, come nel caso dei Mattei di Primavalle) che non potevano nemmeno ricordare senza essere vittima dell'indifferenza degli avversari politici oppure della strumentalizzazione da parte degli "amici".
Se la forma lascia alquanto a desiderare, la lettura di Cuori neri, che, come al solito, non mancherà di suscitare polemiche a destra come a sinistra, è interessantissima, anche perché porta finalmente a conoscenza di un pubblico vasto eventi che per decenni sono rimasti patrimonio esclusivo di piccole comunità anche abbastanza chiuse, unite dal grido "Presente!" ad ogni anniversario.
Cuori neri elenca, uno dopo l'altro, i nomi di ventuno vittime accomunate dalla militanza o anche soltanto dalla simpatia per le formazioni politiche di destra. In alcuni casi, addirittura questa militanza è messa in dubbio dagli stessi familiari: esemplare, ma non è l'unico, il caso del greco Mikis Mantakas. Ci sono casi più noti (Ramelli, Acca Larentia) ed altri meno, alcuni più atroci degli altri (Primavalle tra tutti), ma tutti tragici e probabilmente inutili, essenzialmente perché tutte queste morti erano evitabili ed hanno rovinato una serie di altre vite: quelle dei familiari così come quelle degli assassini, anche se troppo spesso questi omicidi sono rimasti impuniti. Un altro rischio del libro di Telese è quello, ben presente all'autore, di fare di questi morti dei santini, di renderli tutti buoni e perfino poco fascisti; e amio parere, nonostante tutto, nonostante anche quello che dice uno che buono non ha mai preteso di essere come Giusva Fioravanti a proposito di Alberto Giaquinto, una delle vittime («Se fosse sopravvissuto, Alberto avrebbe sicuramente seguito tutto il destino dei Nar»), a mio parere qualche volta Telese in questo processo di beatificazione ci cade. E forse era inevitabile. Certo, fa forse perfino più male leggere quello che scrivevano alcune personalità storiche della sinistra (Dario Fo, Franca Rame, gli avvocati di Soccorso rosso come Spazzali e Pecorella, la testata Lotta continua di Sofri) per giustificare le uccisioni dei fascisti e per scagionare gli extraparlamentari di sinistra accusati degli omicidi. Fino a che, per fortuna, i tempi cambiano, e qualche politico e giornalista coraggiosi (il comunista Antonello Trombadori ai tempi di Acca Larentia, Giampaolo Pansa, Eugenio Scalfari, fino alla presa di posizione di Andrea Marcenaro di Lotta continua) cominciano a far notare che gli omicidi sono tali anche quando riguardano i fascisti e che la lotta armata è sbagliata a priori e destinata ad una impietosa sconfitta.
Personalmente, le storie che più mi hanno colpito sono quelle del rogo di Primavalle, dell'omicidio di Sergio Ramelli (anche per le implicazioni che mi riportano ai tempi dell'ultimo anno di liceo, quando furono arrestati e processati i suoi assassini), i fatti di Acca Larentia per l'assurdità soprattutto della morte di Stefano Recchioni, ma anche quella di Nanni De Angelis (un'altra morte assurda, forse addirittura per errore) e quella di Paolo Di Nella, l'ultimo della lista, per fortuna ventitre anni fa.

La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale

Bartolomé Bennassar, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale, Einaudi, 2006, p. XV-520, € 28,00.
Il 18 luglio di settant'anni fa (1936), con la ribellione dei militari (guidati dal generale Mola) al legittimo governo della Repubblica,  scoppiava la guerra civile spagnola, una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo. Quella di Bennassar è probabilmente la migliore opera tradotta in italiano su questa immane follia umana. Non che il libro sia immune da pecche, specialmente per il lettore normale, per chi non sia uno storico di professione o comunque un cultore appassionato anche alle statistiche. In alcune parti, infatti, per fortuna molto minoritarie, la mania per i numeri, benché funzionale, fa sfiorare la noia. Ma quella di Bennassar è un'impostazione rigorosa e mai partigiana, che si guadagna sul campo il rispetto di tutti i lettori. Ovviamente l'autore non manca mai di ricordare che i generali che alla fine vinsero la guerra insorsero contro un governo (del fronte popolare) che aveva legittimamente vinto delle elezioni democratiche, mentre il regime che uscì dalla guerra fu una dittatura che, con le debite differenze, somigliava molto al regime fascista italiano (che insieme ai nazisti tedeschi contribuirono in maniera decisiva alla vittoria dei ribelli). Meritoriamente, però, Bennassar mette anche in evidenza una delle ragioni fondamentali che causarono la sconfitta del fronte popolare e quindi la caduta della Repubblica, cioè le divisioni interne allo stesso Fronte. Non tutti lo sanno, ma queste divisioni (già evidenziate una decina d'anni fa da Ken Loach nel suo film Terra e libertà) furono sanguinose quanto la guerra ai fascisti: i comunisti spagnoli, che monopolizzavano i rifornimenti bellici sovietici, indispensabili per condurre la guerra, s'imposero e riuscirono ad estromettere dall'alleanza antifranchista forze importanti quali il POUM (il partito di estrema sinistra di cui facevano parte anche i trockisti invisi a Stalin) e gli anarchici, che proprio agli albori della guerra, per la prima volta nella storia, si ritrovarono al governo.
Questo La guerra di Spagna - che, sembra di capire, fu più che una tragedia nazionale, anche per i tanti stranieri che sull'uno e sull'altro fronte vi presero parte - è un'opera indispensabile per chi voglia sapere, senza pregiudizi da Pasionaria, cosa davvero produsse e cosa implicò questa grandissima catastrofe, nella quale rimasero coinvolti, in qualche modo, anche grandi intellettuali, come, solo per ricordarne alcuni, Federico Garcia Lorca (che vi perse la vita), Ernest Hemingway e George Orwell.
Una critica vorrei riservarla alla traduzione, quasi sempre puntuale, ma oscura in alcuni passaggi, come questo: «Nulla è più avvilente, per lo storico amante del vero, che non il potere di produrre danni prolungati nel tempo che esercitano le falsificazioni protette dal prestigio di un magistero intellettuale o spirituale». Forse troppa fretta di mandare il saggio in libreria in tempo per celebrare il settantesimo anniversario dello scoppio della guerra?
Nicholas Pileggi, Quei bravi ragazzi, Newton & Compton, 2006, pp. 295. € 8,90
la copertina dell'originaleQuei bravi ragazzi è un buon libro, scritto con schietto, ma non sciatto, stile giornalistico da Nicholas Pileggi, il quale, poco dopo l'uscita del romanzo, collaborò con Martin Scorsese alla sceneggiatura del film omonimo che il grande regista italoamericano ne trasse nel 1990, per le interpretazioni di Ray LiottaRobert De Niro e Joe Pesci, che compaiono ritratti in copertina. E proprio del film di Scorsese si rimpiange la geniale sintesi che ne fa una delle migliori opere cinematografiche degli anni novanta. Ma anche il libro di Pileggi, pur restando sempre fedele alla "fredda cronaca", riserva qualche geniale colpo d'ala, come nel finale, quando l'ormai "pentito" Henry Hill confessa di rimpiangere la bella vita che faceva quando era un "bravo ragazzo" (pp. 283-284): «Oggi tutto è diverso. Niente più azione, pericolo. Devo fare la fila come tutte le persone normali. Non sono più nessuno. Mi tocca vivere il resto della vita come un fesso qualunque».
«Tutto vero, tutto documentato, in questo libro secco e trascinante, dove Pileggi alterna, nel resoconto di una vita violenta, la sua voce a quella di Hill e signora. Senza omissioni e, soprattutto, senza indulgenze» (Ombretta RomeiPULP Libri #61 maggio-giugno 2006).
Consiglio: leggere il libro di Pileggi e vedere il film di Scorsese. O viceversa, non ha importanza.
P.S. Per quanto riguarda il bel film The Departed - Il bene e il male (2006) di Martin Scorsese, mi rimetto più o meno a quello che ne ha detto Fele sul suo brògghe, con l'avvertenza per quanti - ad esempio Emanuela Martini su Film TV - hanno scritto che l'ultimo film di Scorsese è un capolavoro, di riguardarselo bene: non lo è.

Piccolo grande uomo

Thomas Berger, Piccolo grande uomo, Fanucci, 2006, pp. 567, € 19,00.
piccolograndeuomoChi può non si perda questo capolavoro della letteratura americana, impreziosito, nell'edizione italiana, dalla stupenda traduzione di Luciano Bianciardi, che sa rendere scorrevole  la scrittura di un romanzo (pubblicato nel 1964) che è grande già di per sé. La storia è quella di Jack Crabb, personaggio inventato da Thomas Berger (Cincinnati, 1924), che si muove lungo la frontiera nel periodo in cui questa viene spostata sempre più a ovest, a danno delle popolazioni indigene, mano a mano emarginate nelle riserve, quando non addirittura scientemente sterminate. Berger ci racconta, attraverso l'ottica privilegiata di Jack Crabb, la nascita di una nazione appena uscita dalla Guerra di Secessione, con la fondazione di città oggi importanti come Denver, Colorado, sorte durante una delle molte corse all'oro. L'ottica del protagonista del romanzo è privilegiata, come dicevo, perché lui, bianco, a dieci anni si aggrega a una tribù di Cheyenne, gli "Esseri umani", come si definivano, che, per un malinteso (gli indiani volevano soltanto del caffè), ha ucciso suo padre. Crabb cresce con gli indiani, poi a sedici anni torna con i bianchi, dove viene adottato da un reverendo e dalla sua giovane e desiderabile moglie; qui Jack conosce l'amore, il tradimento e la disillusione (e conosce anche Lavender, uno schiavo negro liberato, che anela a vivere come i pellerossa). Jack, quindi, fugge di nuovo verso gli indiani, poi torna con i bianchi, sposa una bianca che viene rapita dagli indiani e poi tornato con questi, sposa un'indiana che viene uccisa dai soldati bianchi. Egli, dunque, vede il mondo con gli occhi del bianco e dell'indiano; non giudica né gli uni né gli altri, ma comprende che da questo scontro di civiltà (capita l'attualità del romanzo?) i pellerossa non potranno che soccombere: sono i bianchi che uccidono donne e bambini, non viceversa, e dopo ogni sconfitta, anziché sentirsi umiliati, tornano alla carica con forze sempre maggiori, e tradiscono la parola data agli indiani, infischiandosene dei trattati sottoscritti. Jack Crabb, durante la sua lunga vita (è lui stesso che la racconta a un giornalista, alla bella età di 121 anni), dice di avere incontrato alcune tra le leggende del West dal pistolero Wild Bill Hickock al generale Custer - al fianco del quale si trovò nella fatidica giornata del Little Big Horn - fino alla fuorilegge Calamity Jane: bugiardo o meno che fosse, nei primi 34 anni della sua vita fu guerriero Cheyenne, cercatore d'oro, truffatore, cacciatore di bisonti, giocatore di carte e mulattiere per l'esercito.
Ma oltre che il mito della frontiera, per la verità molto smitizzato dallo scrittore americano, conta questo personaggio Jack Crabb che, se non pensassi di incorrere in un pericoloso ossimoro, definirei un antieroe epico, e la scrittura di Thomas Berger, il quale in alcuni momenti delle quasi 600 pagine del romanzo, tocca vette di vera poesia, come quando narra la leggenda del guerriero Cheyenne Uomo Piccolo, che combatté contro i Serpenti anche privo della testa, o quando ci racconta della morte di Pellevecchia, che sembra quella di San Francesco.