lunedì 24 agosto 2015

Leonardo Sciascia, "L'affaire Moro"

Leonardo Sciascia, L'affaire Moro, Sellerio, 1978

Opera letteraria o pamphlet a caldo contro un'intera classe politica? Difficile rispondere, anche se ci proverò.

Vorrei premettere che non ho sempre provato simpatia per le prese di posizione politiche di Leonardo Sciascia, troppo ambiguo, in qualche caso, nel decidere da che parte stare, quando è stata in gioco non dico la democrazia ma quanto meno la legalità. E tuttavia non posso - non si può - non riconoscere a L'affaire Moro alcune importanti qualità.
La prima è indubbiamente il coraggio di prendere una posizione netta sul "caso" a caldo, dopo pochi mesi dallo svolgersi dei fatti del marzo/maggio 1978.
La seconda dote del libro è l'onestà intellettuale, testimoniata in primis dalla premessa di non avere avuto alcuna simpatia né politica né umana per Aldo Moro, considerato esempio di trasformismo tipicamente democristiano, in altri tempi si sarebbe detto anche della morale gesuitica, attestato da un conservatorismo di fondo e da un insopprimibile attaccamento al potere, per di più ammantato di fumose velleità progressiste, come documenta il discorso pronunciato da Moro alla Camera dei Deputati in difesa del collega Luigi Gui, accusato di corruzione nell'ambito del famoso Scandalo Lockheed (discorso riportato da Sciascia pressoché integralmente e comunque nelle sue parti essenziali). La requisitoria dello scrittore siciliano nei confronti del presidente della DC si arresta al 16 marzo 1978, giorno della strage e del "prelevamento" (parola usata da Moro stesso) di Via Fani. Perché se il politico democristiano aveva fino a quel momento incarnato i peggiori vizi del suo partito (e Sciascia, pur senza scriverlo esplicitamente, sembra riconoscere alle Brigate Rosse di avere sequestrato la persona, o meglio la personalità, giusta, più di Andreotti o Fanfani, come pure era stato progettato), con la sua detenzione nella cosiddetta «prigione del popolo» di Via Montalcini, acquista una sua grandezza, soprattutto grazie alle verità che la sua inattesa situazione, pur nel suo linguaggio paludato, gli consente di esprimere. E tale sua nuova grandezza rifulge, in particolare, al confronto con gli altri politici italiani, con particolare riferimento a quelli del suo stesso partito, paralizzati dalla paura e comunque assai poco disposti a muovere un dito per liberare Moro dalle grinfie dei brigatisti.
Non ultimo merito dell'Affaire Moro è quello della provocazione polemica, del (si usava dire) sasso nello stagno, dello stimolo alla discussione, nel solco di un altro grande intellettuale, all'epoca scomparso non da molto. Non è un caso che il libro si apra con una citazione/omaggio a Pier Paolo Pasolini. Con quest'opera, piccola per mole, ma tutt'oggi ricordata, Sciascia sembra rivendicare a sé stesso e agli altri che ne abbiano il coraggio, il ruolo dell'intellettuale che interviene autorevolmente sui fatti del paese, anche con prese di posizione scomode e provocatorie, proprio come faceva Pasolini sui giornali e in televisione. È un ruolo che oggi sembra un po' in disuso, coltivato dal solo Roberto Saviano e pochissimi altri: mi vengono in mente, con parecchi distinguo, soltanto Aldo Busi, Pietrangelo Buttafuoco ed Erri De Luca.

Sciascia ha peraltro avuto la possibilità, in grazia della sua carica di deputato (eletto nelle liste radicali), di partecipare ai lavori della Commissione Parlamentare d'indagine sul Caso Moro ed infatti le edizioni successive del libriccino sono integrate con la relazione di minoranza della Commissione stessa, firmata dallo stesso scrittore siciliano.


Nel 1978 e negli anni successivi, L'affaire Moro ebbe l'effetto dirompente di un pamphlet, di una sorta di J'accuse a una intera classe politica, il cui molliccio e paludoso attaccamento al potere comportava come corollario l'inefficienza  degli apparati burocratici, polizieschi e militari (i cui vertici, si scoprirà qualche anno dopo, erano in larga misura iscritti alla loggia massonica P2), i quali, durante la prigionia di Aldo Moro, non vollero o non riuscirono a cavare un ragno dal buco. Ed ecco che nel corso degli anni, durante i quali si è scoperto molto del Caso Moro, ma soprattutto si è scoperto che non si è saputo tutto (e tanto si deve ancora immaginare), il libro di Sciascia, mantenendo inalterata la propria carica polemica, è diventato opera letteraria che smaschera, attraverso la scrittura e l'osservazione attenta della realtà, l'anima opaca non solo di una classe politica ma di un intero paese.

domenica 9 agosto 2015

Federico Maria Sardelli, "L'affare Vivaldi"

Federico Maria Sardelli, L'affare Vivaldi, Sellerio, 2015, pp. 304, € 14,00

Se oggi diamo per scontato un grande musicista come Antonio Vivaldi, l'autore delle Quattro stagioni, il merito è di due pubblici funzionari, Alberto Gentili, docente di Storia della musica all'Università di Torino, e Luigi Torri, direttore della Biblioteca Nazionale del capoluogo piemontese, che, nel periodo del fascismo, riportarono alla luce le opere manoscritte del Prete Rosso. Per lungo tempo, infatti, Vivaldi è stato un autore non dico sconosciuto, ma sicuramente dimenticato, considerato minore, rispetto ai contemporanei. All'epoca della morte, avvenuta nel 1741 a Vienna (dove sperava di rientrare nelle grazie della corte imperiale), Vivaldi era un musicista dimenticato da tutti, nonché ricoperto di debiti.
I suoi manoscritti, rimasti a Venezia, seguirono un itinerario tortuoso, prima di tornare alla luce e di potere essere acquisiti al patrimonio dello Stato italiano e quindi divenire fruibili da parte di tutti.

Federico Maria Sardelli, livornese, musicista (questa è la sua vera professione), oltre che scrittore, pittore ed umorista - e qualcos'altro che sicuramente mi sfugge - racconta questa storia con piglio da giallista e con la verve che gli conoscono coloro che hanno letto i suoi pezzi e le sue rubriche sul Vernacoliere e i suoi libri, tra i quali resta imprescindibile Il Libro Cuore (forse). Del resto, la vicenda dei manoscritti vivaldiani è di per sé un giallo ed anche piuttosto interessante. Sardelli controlla il proprio stile, attenendosi ai documenti d'epoca, ma non perde il sarcasmo che ne contraddistingue la scrittura. Ma qui l'autore satirico si fa di lato e cede il passo ai veri protagonisti del romanzo - che è anche un valido romanzo storico - cioè gli uomini che hanno riscoperto Vivaldi e la sua musica. E tra le righe ci viene ricordato di andare ad ascoltarla.