Mattia Signorini, Ora, Marsilio,
2013, pp. 221, € 17,00
La prima riflessione che sorge
dopo avere letto Ora è che la
narrativa italiana deve essere proprio messa male, se un editore importante
come Marsilio pubblica un romanzo come questo.
Non avevo mai letto niente di Mattia Signorini e comprai Ora dopo avere visto e sentito lo stesso
autore che parlava del proprio libro in una trasmissione televisiva. Ed
evidentemente il giovane scrittore veneto è molto più bravo e convincente nel
parlare che nello scrivere.
Non che Signorini non sappia scrivere, ma questo romanzo manca degli
elementi che un buon romanzo deve avere, a cominciare dall'ispirazione, come se
Signorini, al pari del suo
protagonista, l'avesse scritto per tenere fede alle promesse fatte al proprio
agente e per riscuotere i sostanziosi anticipi dell'editore. Manca poi la
necessità, nel senso che si avverte un procedere forzato e difficoltoso, che si
divincola ad ogni passo dall'impantanamento, grazie all'inserimento di
personaggi inutili e di maniera.
Per essere un romanzo di
formazione, insomma, manca quasi tutto, ed infastidiscono particolarmente le
falle che si aprono nel contesto realistico, che in un romanzo non è elemento
essenziale, a meno che l'autore, com'è il caso di Signorini, non voglia per l'appunto scrivere un romanzo realistico.
Si potrebbe pensare, a voler
essere benevoli, che Ettore sia una figura cristologica, tali sono gli effetti
benefici che il suo arrivo provoca per i personaggi che incontra al suo paesino
d'origine, tutti buonissimi e sempre pronti ad aiutarlo. Ma sarebbe una
raffigurazione messianica che, anziché divenire protagonista di una vicenda
come quella evangelica (che, quella sì, era carne e sangue, oltre che spirito
santo), sembra calata nell'immobilismo ingessato di un presepio.
Il buonismo che - contro la
volontà dell'autore, c'è da giurarci, perché vorrebbe trattare d'altro -
costituisce il nerbo di Ora è
veramente stucchevole e fa venire alla mente un'ideologia ruralista di stampo
paratelevisivo. La storia del ritorno di Ettore al paese natale contempla una
serie di personaggi che da un lato sembrano non aspettare altro che lui arrivi
oppure, sebbene sia stato via dieci anni (la metà di Odisseo, ma questo Ettore
non è stato né in guerra né a peregrinare per il Mediterraneo), non lo
riconoscono nemmeno. Quindi c'è la vecchia solitaria, che tutti considerano una
mezza strega, la quale si affeziona quasi subito al Nostro. C'è la ex,
inspiegabilmente mollata dal protagonista, ora rimasta ragazza madre, con un
frugoletto di sei anni, ovviamente simpaticissima canaglia, che si affeziona
anche lui immediatamente a Ettore. E poi gli amici, quello che gli sistema il
Ciao, un ciclomotore dato praticamente per estinto a metà anni Novanta e che
qui, invece, sfreccia come una saetta; l'altro che gli fa riallacciare la
corrente elettrica, la signora un po' burbera che si occupa di vendergli la
casa, un altro che fa il ristoratore e gli offre il pranzo, il pazzo del
villaggio che si rivela una specie di Jimi
Hendrix e così via.
Tutto questo, unito ad un finale da romanzo
d'appendice, se non da fotoromanzo (genere cui rimandano alcuni dialoghi,
davvero che non si possono leggere senza farsi cogliere dalla nausea), che fa
cascare le braccia per mancanza di credibilità, mette in secondo piano il
rabbioso tentativo di conquista della maturità e di un rapporto con il padre,
seppure postumo, da parte del protagonista.