domenica 2 novembre 2014

Le avventure musicali di un Cristiano (De André)


È sempre il solito discorso dei figli d'arte, quello sul peso d'un cognome che, se agli inizi può aprire qualche porta, a lungo andare crea pressioni che possono essere difficili da gestire. Cristiano De André, sebbene i suoi genitori Fabrizio ed Enrica si siano separati abbastanza presto, non solo ha la musica nel sangue, ma l'ha sempre respirata nell'aria fin da piccolo. E tuttavia, va detto, non ha il talento del padre. Però talento ne ha eccome. Forse, nel corso degli anni, si è perfino permesso il lusso di sprecarne un po'.
L'esordio di Cristiano avviene sotto l'egida del padre Fabrizio De André, con il gruppo dei Tempi duri. L'album, del 1982, si chiama per l'appunto Chiamali tempi duri e musicalmente si muove secondo le coordinate ben chiare dei Dire Straits. Sebbene derivativo, il disco non è niente male, come dimostra il pezzo d'inizio Via Waterloo, a metà tra la musica della band di Mark Knopfler e la poetica di Fabrizio De André. Le canzoni migliori dell'album sono in ogni caso Regina di dolore e Tempi duri.

Sciolta nel 1985 la prima band (che comunque sembra essersi rimessa in piedi dal 2010), Cristiano De André tenta di far partire una carriera solista, che stenta parecchio, visto che il primo album del neo cantautore, del 1987, salvo una discreta canzone come America, è disastroso. Musica, testi, arrangiamenti ed interpretazione sono totalmente insignificanti e soporiferi, tanto che il Nostro può essere scambiato per un qualsiasi Ron o per uno dei tanti cantantelli degli anni Ottanta.
Per fortuna (ma ovviamente non è soltanto quella), dopo tre anni esce L'albero della cuccagna, cui contribuiscono Mauro Pagani e Massimo Bubola, due degli storici collaboratori di Fabrizio De André. La riuscita dell'album è buona, anche grazie al lavoro dei due musicisti, e tuttavia questo non sminuisce i meriti di Cristiano De André (del resto, anche babbo Fabrizio aveva usufruito delle capacità di musicisti di valore, quali i due sopra citati, ma anche Francesco De Gregori e Ivano Fossati). Davvero buone almeno un paio di canzoni, quali Natale occidentale e Senza famiglia.
Nel 1992 esce Canzoni con il naso lungo che, pur lanciato dal valido singolo che dà il nome al disco, è un album poco omogeneo e di valore diseguale: un paio di brani appena discreti, come Invincibili e Nel grande spazio aperto, cover di Into The Great Wide Open di Tom Petty.
Sul confine (1995) è un album che definire interlocutorio è già eufemistico e che poggia sulle fragili gambe della canzone che titola il disco (scritta insieme a Massimo Bubola), anche se a parere mio sono da preferire Di bolina e Cose che dimentico, il cui testo è da imputare a Fabrizio De André e a Carlo Facchini, vecchio compagno nei Tempi duri. A questo punto, qualcuno comincia apertamente a domandarsi se il patrimonio genetico del padre non sia ravvisabile in Cristiano soltanto nell'aspetto fisico (il giovane De André somiglia molto, e in meglio, al padre), mentre non sembra essersi trasmesso granché del talento musicale di Fabrizio.
Passano sei anni, periodo nel quale avviene anche il decesso di Fabrizio De André,  e questa volta esce un buon album, che si incarica di smentire gli scettici. Si tratta di Scaramante (2001), disco coerente e con qualche canzone che spicca nel buon livello generale, come Buona speranza, Lady Barcollando e La diligenza.
Nel 2003 arriva l'album riassunto, nel quale vengono risuonati live in studio diversi brani che hanno punteggiato la carriera del cantautore. Nonostante l'opportunità di fare un punto a capo, Un giorno nuovo non è granché, forse anche per la scelta delle canzoni che non sempre ha privilegiato composizioni di primissimo livello. Il titolo del disco è dato dal pezzo proposto da Cristiano quell'anno a Sanremo.
Qualche problema caratteriale frena il cantautore negli anni successivi, anche con il coinvolgimento in un episodio di cronaca poco simpatico e che fa dispiacere a chi vuole bene, per qualsiasi ragione,  al nome De André. È proprio questo nome che consente il rientro di Cristiano sulle scene, con alcuni concerti nei quali il "giovane" De André canta - e bene - le grandi canzoni del babbo, cui ormai somiglia moltissimo anche nella voce. Escono così i due volumi intitolati De André canta De André, rispettivamente del 2009 e del 2010.

Sembra iniziata una nuova fase nella carriera dell'ormai cinquantaduenne Cristiano De André (lo sperano tutti, anche perché in una recente intervista ha pronunciato la sintomatica frase «la mia vita è stata farmi molto male»), anche se i tempi di produzione di un nuovo disco sono ancora molto lunghi. Si deve infatti attendere il 2014 per ascoltare l'album Come in cielo così in guerra, di discreto livello, con una canzone che non si dimentica, come Credici, la quale si riallaccia alla migliore vena poetica e polemica (si direbbe satirica, in senso classico) paterna, quella, per esempio, di La domenica delle salme.

sabato 9 agosto 2014

1914: attacco a Occidente (il Mulino)

Gian Enrico Rusconi, 1914: attacco a Occidente, Il Mulino, 2014, pp. 320, € 24,00

Prima ancora di parlare dell'attentato di Sarajevo (28 giugno 1914), qualsiasi storia della Prima Guerra Mondiale dovrebbe partire da Schlieffen. E questo saggio di Rusconi lo fa. Alfred von Schlieffen fu a lungo capo di stato maggiore delle forze armate tedesche, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, e durante il suo incarico ebbe come suo massimo impegno l'elaborazione di un piano d'attacco alla Francia. Si trattava di un piano che prevedeva un fulmineo attacco alla Francia, entrando nel suo territorio attraverso il neutrale Belgio, per aggirare le difese francesi costruite lungo il confine con la Germania. Per ironia della sorte, Schlieffen morì nel 1913 e non vide mai l'attuazione del piano strategico da lui tanto a lungo elaborato. Eppure, l'attuazione del piano Schlieffen - o della sua reinterpretazione fornita dal successore alla carica di capo di stato maggiore Moltke - fu il primo atto militarmente rilevante di quella che fu chiamata la Grande Guerra. E questa fu una delle tante cose strane e curiose che caratterizzarono questa guerra, scoppiata a seguito di un contrasto tra l'Impero Asburgico e la piccola Serbia, successivamente allargatasi alla Russia zarista, paese difensore degli interessi (oltre che propri) slavi in Europa.
Allora perché, dati questi prodromi, la guerra ebbe inizio con l'attacco della Germania guglielmina alla Francia? È, questa, una delle domande cui cerca di dare risposta il libro dello storico Rusconi, che si inserisce nel solco della più avveduta e moderna storiografia sulla Prima Guerra Mondiale. Infatti, il maggiore interesse di questo saggio consiste nella ricostruzione della fasi che precedettero la mobilitazione generale decretata nei vari stati originariamente coinvolti.

Per una ricostruzione puntuale delle vicende militari, ci si rivolga altrove (per esempio alla fondamentale monografia dell'inglese John Keegan, il cui unico difetto è costituito dallo scarso rilievo dato al fronte italiano): Rusconi fornisce risposte - laddove esse siano rintracciabili nelle carte - ad altri interrogativi, del tipo perché questa guerra scoppiò, chi la iniziò, se si sarebbe potuta evitare, quale fu il peso dell'intervento italiano - avvenuto, dopo quasi un anno di grandi contrasti, nel 1915 - al fianco delle potenze "alleate" e se la Seconda Guerra Mondiale fu una conseguenza, forse un'appendice, della Prima.

sabato 24 maggio 2014

L'anno che cambiò il mondo

Michael Meyer, L'anno che cambiò il mondo, il Saggiatore, 2013, pp. 286, € 10,90


Il 1989 è stato veramente un anno che ha cambiato il mondo. Meyer ce lo racconta da un'ottica (forse eccessivamente) americanocentrica. Sembra peraltro che il giornalista statunitense si trovi sempre al posto giusto al momento giusto, in modo che il suo libro mette in evidenza il suo intuito da reporter. Ma non gli si può negare il merito di avere riportato la luce su un periodo storico, su un anno che, venticinque anni fa, cambiò davvero il mondo per come molti di noi l'avevano conosciuto.

sabato 29 marzo 2014

Giammario Di Risio "L'immagine-­Cristo"

Giammario Di Risio L'immagine-­Cristo. La rappresentazione cinematografica di Gesù di Nazareth in Pasolini, Jewison, Scorsese e Gibson, Le Mani Microart's, 2013, p. 200, € 16,00.


Recentemente ho letto il libro di Giammario Di Risio L'immagine-Cristo, un saggio sul modo di presentare Gesù di Nazareth nel cinema e in particolare in quattro film assai rilevanti, come Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese e La passione di Mel Gibson. L'elemento comune a tutti gli autori che hanno portato al cinema Gesù Cristo è l'avere rappresentato, talvolta anche oltre le intenzioni, qualcosa di più della semplice vita di un uomo: non a caso già nel titolo del libro si parla di "immagine-Cristo" e poi nella trattazione vera e propria di "testo Cristo". Perché anche soltanto nella rappresentazione "estetica" di Gesù si nasconde già una scelta politica e così, mentre Pasolini punta su un Cristo mediterraneo, figlio naturale della terra in cui è nato, lo Zeffirelli del Gesù di Nazareth propone un figlio di Dio tratto dalla tradizione figurativa rinascimentale, ripresa poi dai santini diffusi dalla Chiesa ufficiale. A maggior ragione, Cristo può benissimo incarnare (il termine è appropriato al soggetto) un messaggio, a seconda che si voglia privilegiare l'aspetto rivoluzionario ed egualitario della sua predicazione (Pasolini ammise di avere avuto come modello Lenin nella costruzione del suo Cristo) ovvero il messaggio di fratellanza tra gli uomini e di amore anche per i nemici. Del resto, almeno secondo me, anche a leggere soltanto i quattro Vangeli riconosciuti dalle principali chiese cristiane, il senso della predicazione di Gesù non è proprio univoco: in un punto dice di non fare agli altri quello che non vogliamo sia fatto a noi ed invita a porgere l'altra guancia a chi ne ha percossa una, altrove afferma di non essere venuto a portare pace sulla terra («sono venuto a portare non pace, ma spada!», Matteo 10,34) e dopo, precisamente durante l'arresto nel Getsemani, invita a riporre la spada nel fodero, perché - come recita la celebre frase tradizionale - chi di spada ferisce, di spada perisce. Quindi è l'occhio dell'esegeta e, nel nostro caso, dell'artista a scegliere quali significati dare al "testo Cristo" di cui parla Giammario Di Risio.
Il libro è indubbiamente meritevole, perché fornisce, in apertura, un repertorio del cinema cristologico, quello, cioè, in cui Gesù compare come personaggio, il più delle volte fondamentale. In questo senso, l'opera del giovane critico italiano si pone come complementare di libri, usciti negli ultimi anni, che si occupano dei film nei quali il Cristo è presentato (o è comunque desumibile) in maniera allegorica, nascosto dietro ad una sorta di marchingegno cinematografico definito figura Christi. Mi riferisco, per esempio, a saggi quali Il volto di Gesù nel cinema (2005) di padre Guido Bertagna o Lo schermo di Dio (2011) di Auro Bernardi. Per di più, il lavoro di Giammario Di Risio analizza i quattro film che costituiscono l'oggetto del suo studio, evidenziandone diversi aspetti, soprattutto in riferimento al "testo Cristo", proponendo confronti e concludendo, in maniera più che condivisibile, come il film di Gibson sia quello che più si allontana dal messaggio cristiano più innovativo rispetto a quello fatto proprio dalla Chiesa dei nostri tempi.
Se qualche difetto può essere trovato, direi che risiede in una certa fretta di mandare in stampa il libro, quando un'ulteriore revisione editoriale sarebbe stata necessaria, per evitare qualche refuso che porta qua e là qualche periodo a risultare farraginoso e poco chiaro. Soltanto per fare un esempio, tempo fa ho inviato questo messaggio a Di Risio su Facebook : «Ciao Giammario, sono un appassionato di cinema e sto leggendo il tuo libro "L'immagine-Cristo". C'è un discorso, a proposito del film "L'ultima tentazione..." di Scorsese, del quale comprendo il senso, ma che mi suona un po' strano. A pagina 103 si legge "Fugate le indiscrezioni sulle imminenti riprese, alcune associazioni cattoliche protestanti, come le Evangelical Sisterhhood (letteralmente Sorellanza Evangelica) iniziano a ostacolare la produzione del film...". Sono io che non capisco o c'è un errore? Fugate potrebbe essere sostituito con "fiutate"? E com'è possibile che la Sorellanza sia contemporaneamente cattolica e protestante? Ti ringrazio se vorrai rispondermi.» A mio parere, poi, manca anche una sorta di riassunto dell'autore, una sorta di punto di vista personale, che possa fare da collante all'intera esposizione, una sorta di "summa" che servisse da filo conduttore per l'intero lavoro. 

mercoledì 12 febbraio 2014

James Leo Herlihy, Un uomo da marciapiede

James Leo Herlihy, Un uomo da marciapiede, BEAT, 2013, p. 211, € 12,90
Capita spesso che da romanzi belli siano tratti film mediocri e viceversa. Quello di Un uomo da marciapiede è uno di quei casi, abbastanza rari, in cui libro e film sono sullo stesso livello, che per entrambi è molto alto. Non saprei dire quale delle due opere sia migliore, pur nel rispettivo, diverso, ambito.
Nel libro ci sono "più cose", più fatti, più antefatti, più retroscena. Il film è, per sua natura, più sintetico e diretto: spesso, anzi, l'abilità del regista consiste proprio nel suggerire determinate vicende in maniera ellittica.
Herlihy (1927 - 1993), autore poco conosciuto dalle nostre parti, autore di un numero limitato di opere (tre romanzi, qualche dramma e un paio di raccolte di racconti), dimostra con questo romanzo di essere uno scrittore vero. Un uomo da marciapiede è infatti un vero romanzo di formazione, che stempera la sofferenza di una vita dura nel valore dell'amicizia, di un'amicizia vera, non fatta di convenienza, che è occasione di tirare fuori la generosità e una sorta di sentimento materno per l'amico più debole: quello stesso sentimento materno che al protagonista Joe Buck, un giovanottone buono e prestante ma non molto intelligente, era sempre mancata, fin da quando la mamma l'aveva lasciato in custodia ad una nonna buona e svampita. Dell'infanzia, Joe Buck si porta dietro soltanto il rimpianto per la nonna morta mentre lui è militare e l'immagine del cowboy, quella dell'unico "fidanzato" della nonna che gli aveva dimostrato un po' di affetto. E per questo, vestito da cowboy, attraversa l'America per proporsi come gigolò ad attempate signore cittadine. Salvo accorgersi che questo suo progetto di vita è frustrante e destinato al fallimento. Con ogni probabilità, Joe riuscirà a crescere soltanto riversando tutto l'affetto e tutta la tenerezza che, pure, si porta ancora dentro, sull'amico "Zozzo" Rizzo, più sfortunato di lui.
Un grande romanzo, che vive delle sagaci, sentite, ironiche, patetiche osservazioni dell'autore su personaggi che ama talmente da essere in grado di prenderne le distanze.

lunedì 3 febbraio 2014

Fabio Melelli, Orchidea De Santis

Fabio Melelli, Orchidea De Santis, Coniglio Editore, 2003, pp. 108

Qualche anno fa, commentando un film (si trattava di La dottoressa sotto il lenzuolo) su un blog, scrissi che Orchidea De Santis non si spogliava, mentre le altre due attrici (Karin Schubert ed Ely Galleani) lo facevano anche troppo. Un fan spagnolo della De Santis glielo disse e lei mi rispose risentita. Alla fine le chiesi se pensava che le offrissero le parti in certi film per le sue capacità recitative. Però mi venne la curiosità di leggere questo librettino, un po' interessante e un po' no... una curiosità d'epoca, insomma.