sabato 29 giugno 2013

Ti volevo dire (Rizzoli)

Daniele Bresciani, Ti volevo dire, Rizzoli, 2013, pp. 369, € 17,00

Nella narrativa italiana degli ultimi anni si trovano tanti autori che sanno scrivere e che hanno qualcosa da raccontare, tanto che, sia per una questione di tempo sia per ragioni puramente economiche (i libri costano!) anche il "mestiere" di lettore implica numerose, talvolta dolorose, scelte. A fronte di un alto numero di scrittori professionali o provenienti da altre attività (come nel caso di Bresciani, giornalista presso importanti testate), è latitante la letteratura, intesa come quantità di riferimenti culturali che trasudano da un testo. I grandi romanzi raccontano sempre una storia, ma nel farlo parlano anche di altro: parlano di un periodo storico, di una filosofia di vita, di un'interpretazione del senso dell'esistenza, di una visione del mondo e dei fini ultimi dell'uomo. Oppure, ci parlano di sensazioni universali, descrivendo stati d'animo comuni a ciascuno di noi, ma che non tutti sono in grado di esprimere a parole.
In questo senso, Ti volevo dire non è un grande romanzo. Ma questo breve preambolo non voleva certo fungere da denigrazione nei confronti del romanzo di Bresciani, verso il quale mi hanno attratto diversi fattori e che in definitiva mi è piaciuto. Il primo fattore (assai esteriore, lo riconosco) che mi ha colpito, invitandomi ad andare in libreria e tirare fuori i soldi dell'acquisto è stato il nome di battesimo del protagonista, che, abbastanza inusualmente, è mio omonimo. Ma le analogie tra il protagonista e il sottoscritto (e quindi i fattori di attrazione) non si limitano a questa. Giacomo (che già all'inizio del romanzo muore) è stato una persona che non ha saputo o voluto assumersi molte responsabilità, uno di quegli individui (cui, come s'è capito, guardo con affetto) che si lasciano scivolare addosso la vita. È vero che si era creato una famiglia, ma non ha saputo farsela durare e poco prima di morire, viveva da solo con la amatissima figlia adolescente Viola, l'altro polo magnetico del libro. Giacomo, figlio unico, è vissuto dapprima nel cono d'ombra di un padre iperprotettivo, uno di quegli uomini che hanno contribuito attivamente al miracolo economico italiano del dopoguerra, un padre che si sentiva in diritto di pretendere per il figlio un destino lavorativo similare e conseguente al proprio (per questo manda giù obtorto collo che si iscriva alla facoltà di Lettere dell'università). Dopo di che, Giacomo s'è consegnato ad una moglie attivissima, che deve avere apprezzato ben poco la dolce remissività di un uomo rimasto legato alla musica degli anni Sessanta e Settanta e ad un potentissimo primo amore di gioventù. E questo è un ulteriore elemento che mi rende umanamente vicino quest'altro Giacomo. Il quale, da studente, per una di quelle vacanze-studio che poi si svilupperanno nei vari programmi Erasmus (qui siamo nel 1980), durante un'estate passata a Brighton, conosce Claire, una ragazza inglese con la quale intreccia un'intensa relazione sentimentale.

Ho detto che Giacomo è un individuo dolcemente indeciso ed è, effettivamente, per come lo descrive Bresciani, una persona mite. Non si deve però pensare che questa sua indecisione - un tratto del carattere che di per sé potrebbe non avere implicazioni negative - sia anche innocua. La vita impone sempre ed inevitabilmente delle scelte e fuggire davanti ad esse può significare fare del male al prossimo, un male che può crescere dentro per anni, fino a fermarti il cuore in una notte qualsiasi. Un male che è tanto più grave e persistente per quanto è stato perpetrato nei confronti della persona amata, del grande amore di una vita, quello che non sarà mai dimenticato. Ed è un male (una di quelle entità di cui non si può misurare l'estensione, se non per via empirica, come con la Scala Mercalli per i terremoti) che produce i propri effetti a distanza di anni, su soggetti del tutto incolpevoli dei fatti accaduti tanto tempo prima. E così succede che Viola, scoperto del tutto inaspettatamente il cadavere del padre, diventi vittima di un blocco psicologico che le impedisce di parlare. E allora il romanzo racconterà, in parallelo, il percorso di questa adolescente per riappropriarsi della parola, della propria voce, grazie all'aiuto di una serie di personaggi, tra i quali una compagna di collegio e all'insperata collaborazione di una sorta di fratellastro (il figlio del nuovo compagno della madre), l'inizialmente antipatico, o peggio, indifferente, Tancredino.

I difetti, nel romanzo, ci sono: oltre a quanto scrivevo all'inizio, c'è, talvolta, un'eccessiva descrizione di particolari che confina con il lezioso e il minuzioso, oppure l'esagerata volontà dell'autore di dimostrare che lui a Londra c'è stato, che ha visto quello e fatto quell'altro, prima di noi.
Ma il racconto è sentito, la storia profuma di vissuto, la trama non è scontata, così come non è corrivo il riferimento ad una lontana gioventù, vissuta come un momento di autenticità di una vita che ti regala insieme i primi palpiti e le prime difficilissime scelte da prendere. E si sente, in Bresciani, l'amore per i suoi personaggi (quasi tutti fin troppo positivi) e per la cultura inglese, riassunta nella musica dei grandi gruppi e dei grandi musicisti rock degli anni Settanta, dai Deep Purple ai Pink Floyd (il concerto della tournée seguita alla pubblicazione dell'album The Wall è uno dei momenti indimenticabili della storia d'amore tra Claire e Giacomo), dai Led Zeppelin al poco conosciuto ma assai meritevole John Martyn.

domenica 9 giugno 2013

Sbatti Bellocchio in sesta pagina

Steve Della Casa e Paolo Manera, Sbatti Bellocchio in sesta pagina, Donzelli, 2012, pp. 228, € 18,00

Davvero interessante questo libriccino edito l'anno scorso dalla Donzelli, che raccoglie un florilegio di commenti cinematografici usciti sulle pubblicazioni della sinistra extraparlamentare nel periodo che va dal 1968 al 1976 (e i due autori, nella postfazione, spiegano il perché dello stop proprio al 1976). Si tratta di commenti, usciti quasi sempre anonimi, su quotidiani o riviste quali Lotta continua, il manifesto, Servire il popolo, il Quotidiano dei lavoratori. Quello che salta all'occhio è che si tratta, per un buon novanta per cento, di stroncature, anche dure e fatte con linguaggio provocatorio, di film importanti e soprattutto di autori "di sinistra", ma spesso giudicati spregiativamente dei riformisti. Tra i registi più stroncati, oltre a quello citato nel titolo (ovviamente con il suo Sbatti il mostro in prima pagina), Bertolucci (per Novecento), i fratelli Taviani (con Allonsanfàn) ed Elio Petri, in particolare per il suo La classe operaia va in paradiso, quasi unanimemente valutato come troppo riformista e vicino al metodo trattativistico dei sindacati confederali. I recensori delle testate prese in esame (oltre a quelle già citate, anche Re nudo, La vecchia talpa e Vedo rosso) capiscono assai bene l'importanza, se non altro propagandistica, del cinema - visto anche come momento di svago intelligente, ed alternano intuizioni anche geniali con cantonate epocali (basti pensare alle stroncature su Arancia meccanica e Barry Lyndon di Kubrick), mettendo comunque in evidenza un modo di ragionare quasi sempre offuscato dal paraocchi dell'ideologia marxista-leninista-maoista, tanto da condannare, quasi senza eccezioni (l'eccezione è data, intelligentemente, da Bersaglio di notte di Arthur Penn), sebbene per motivazioni ideologicamente diverse, il cinema americano.
Non foss'altro perché gran parte della classe dirigente di oggi, anche su schieramenti opposti, proviene dalle fila di quelle formazioni a sinistra del vecchio PCI, è interessante vedere come pensassero e come scrivessero queste avanguardie della classe operaia. E cosa pensassero degli autori cinematografici che, almeno in Italia, erano convinti di interpretare le loro istanze in campo artistico. Anche perché, in ogni caso, è sempre meno noioso parlare di cinema che di politica.