Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, 2007, p. 419, € 17,00.
Eseguendo
la sentenza è un bel titolo, tratto dall'ultimo
comunicato emesso dalle Brigate Rosse per annunciare l'omicidio di Aldo Moro, ma nei panni di Bianconi
avrei intitolato il libro "niente di intentato". Sì, perché era
questo il mantra ripetuto dai dirigenti democristiani durante i 55 giorni del
sequestro del presidente della Democrazia Cristiana. Era una formula che
avrebbe dovuto coniugare la linea della fermezza e del rifiuto di ogni
trattativa con le BR, con la volontà (ammesso che tale volontà ci sia mai stata
e sarebbe interessante scoprire eventualmente da parte di chi) di tirare fuori
Moro dalla cosiddetta prigione del popolo.
Se la locuzione «eseguendo la sentenza» è passata ad
indicare la volontà di un gruppo terroristico di ergersi quale tribunale di
giustizia popolare, il «non lasciare niente di intentato» rappresenta bene la
condizione di una classe politica, quella democristiana soprattutto, paralizzata dall'ipocrisia nel barcamenarsi
tra gli alleati del Partito Comunista Italiano (i «berlingueriani», come li
chiamavano le BR) e la famiglia del rapito, avanguardia di un paese che ne
avrebbe voluto, prima di tutto, il ritorno a casa.
Senza voler negare a nessun titolo la piena e totale
responsabilità degli autoproclamati esecutori di una sentenza che comportò
prima la strage di cinque uomini delle forze dell'ordine (Via Fani, 16 marzo
1978) e poi l'omicidio a freddo di uno dei leader del partito italiano di
maggioranza relativa (Via Montalcini, 9 maggio 1978), non si può negare che la
formula « niente di intentato» sintetizza bene il coacervo di responsabilità,
paragonabili quanto meno ad una omissione di soccorso, che unì la quasi
totalità della classe politica italiana nei tentativi di non salvare la
vita di Aldo Moro.
Giovanni
Bianconi (del quale avevo letto l'ottimo Bravi ragazzi, sull'epopea della banda
della Magliana) racconta quasi "la fredda cronaca" di quei 55 giorni,
basandosi sui ricordi e sui diari di alcuni protagonisti e comprimari della
vicenda: alcuni dirigenti della DC come Beppe
Pisanu (all'epoca giovane parlamentare moroteo) e Corrado Belci (direttore del Popolo),
i figli di Moro Giovanni e Agnese, la studentessa che proprio il 16 marzo del
'78 avrebbe dovuto discutere la tesi di laurea con il presidente democristiano
come relatore. In chi ricorda di avere vissuto quel periodo della storia
italiana, sulle pagine di Bianconi, quei giorni scorrono via inesorabili, come
le ore successive all'ultima cena nella passione di Gesù, tra le normali
notizie di cronaca e i resoconti del campionato nazionale di calcio, mentre i
responsabili della politica del paese non lasciano niente di intentato per non
impedire l'esecuzione della sentenza.
Dalla narrazione di Giovanni Bianconi emerge un quadro politico paralizzato, nel quale
il PCI recita la parte dell'elemento intransigente, votato a distinguere
nettamente la propria posizione da quella dei terroristi, discesi dalla
medesima matrice marxista, ma che non potevano più essere benevolmente
liquidati come «compagni che sbagliano». Dall'altro lato, la DC non poteva
essere scavalcata da destra dai "berlingueriani", anche al cospetto
degli alleati internazionali del nostro paese, in un contesto geopolitico
ancora sostanzialmente di guerra fredda. In mezzo, ci furono i tentativi
velleitari di smuovere la situazione messi in atto dal PSI di Craxi. E quei giorni passavano veloci
attraverso le rughe sempre più profonde del segretario democristiano Benigno Zaccagnini, nell'inefficienza
operosa dell'apparato poliziesco diretto da Cossiga, che dopo l'epilogo si dimise da Ministro degli Interni, in
uno dei pochi gesti sensati della lunga carriera politica dell'ex presidente.