sabato 12 dicembre 2015

Riccardo Bocca, Tutta un'altra strage


Riccardo Bocca, Tutta un'altra strage, BUR, 2007, pp. 259, € 10,20
In 35 anni di storia, sono stati scritti tanti libri sulla strage alla stazione di Bologna e forse questo di Riccardo Bocca presuppone la lettura di qualcuno di essi, cui si fa esplicito rimando. Tutta un'altra strage, quanto meno al momento della sua uscita (2007), si poneva come punto della situazione e come momento di verifica delle verità giudiziarie uscite da tanti anni di indagini (talvolta deviate a bella posta) e processi. Bocca parla di molti dei personaggi assurti ai ruoli di protagonisti e/o comprimari riguardo alla strage del 2 agosto 1980, focalizzandosi sulle tre persone condannate in via definitiva per la bomba, cioè Valerio Fioravanti, Francesca Mambro (entrambi condannati all'ergastolo) e Luigi Ciavardini (che ha avuto trent'anni, in quanto minorenne all'epoca dei fatti). Ma ce ne sono altri, magari usciti assolti da indagini e processi, come quel Sergio Picciafuoco che di sicuro si trovava alla stazione ferroviaria di Bologna quella mattina del 2 agosto 1980. Altri personaggi di quella stagione dell'eversione nera (e della storia italiana) sono morti o scomparsi. Nessuno ha mai confessato le proprie responsabilità per uno degli atti più barbari della storia stragista italiana (che pure non è povera di atti orribili), per il quale qualcuno (sc. Licio Gelli) continua a sostenere che si sia trattato dell'esplosione di una caldaia (in agosto, si badi bene). In questo senso, uno degli obiettivi di Bocca è di valutare la personalità criminale di Fioravanti e della Mambro (da trent'anni coppia anche per la legge italiana, essendosi sposati in carcere), in relazione alla capacità morale di commettere un atto del quale si sono sempre dichiarati innocenti. Dalla lettura del libro non si può che propendere per una tesi che contrasta con quest'ultima affermazione dei condannati, in forza di molteplici elementi, non ultimo il continuo variare degli alibi per il giorno della strage e le versioni su questo punto assai poco credibili per degli innocenti. Che poi i tre giovani condannati abbiano potuto fare tutto da soli è cosa che si può mettere in dubbio, anche alla luce dei numerosi depistaggi successivi al 2 agosto 1980. Ma questa, come dice Bocca, è tutta un'altra strage.



sabato 7 novembre 2015

Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza

Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, 2007, p. 419, € 17,00.

Eseguendo la sentenza è un bel titolo, tratto dall'ultimo comunicato emesso dalle Brigate Rosse per annunciare l'omicidio di Aldo Moro, ma nei panni di Bianconi avrei intitolato il libro "niente di intentato". Sì, perché era questo il mantra ripetuto dai dirigenti democristiani durante i 55 giorni del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana. Era una formula che avrebbe dovuto coniugare la linea della fermezza e del rifiuto di ogni trattativa con le BR, con la volontà (ammesso che tale volontà ci sia mai stata e sarebbe interessante scoprire eventualmente da parte di chi) di tirare fuori Moro dalla cosiddetta prigione del popolo.
Se la locuzione «eseguendo la sentenza» è passata ad indicare la volontà di un gruppo terroristico di ergersi quale tribunale di giustizia popolare, il «non lasciare niente di intentato» rappresenta bene la condizione di una classe politica, quella democristiana soprattutto,  paralizzata dall'ipocrisia nel barcamenarsi tra gli alleati del Partito Comunista Italiano (i «berlingueriani», come li chiamavano le BR) e la famiglia del rapito, avanguardia di un paese che ne avrebbe voluto, prima di tutto, il ritorno a casa.
Senza voler negare a nessun titolo la piena e totale responsabilità degli autoproclamati esecutori di una sentenza che comportò prima la strage di cinque uomini delle forze dell'ordine (Via Fani, 16 marzo 1978) e poi l'omicidio a freddo di uno dei leader del partito italiano di maggioranza relativa (Via Montalcini, 9 maggio 1978), non si può negare che la formula « niente di intentato» sintetizza bene il coacervo di responsabilità, paragonabili quanto meno ad una omissione di soccorso, che unì la quasi totalità della classe politica italiana nei tentativi di non salvare la vita di Aldo Moro.
Giovanni Bianconi (del quale avevo letto l'ottimo Bravi ragazzi, sull'epopea della banda della Magliana) racconta quasi "la fredda cronaca" di quei 55 giorni, basandosi sui ricordi e sui diari di alcuni protagonisti e comprimari della vicenda: alcuni dirigenti della DC come Beppe Pisanu (all'epoca giovane parlamentare moroteo) e Corrado Belci (direttore del Popolo), i figli di Moro Giovanni e Agnese, la studentessa che proprio il 16 marzo del '78 avrebbe dovuto discutere la tesi di laurea con il presidente democristiano come relatore. In chi ricorda di avere vissuto quel periodo della storia italiana, sulle pagine di Bianconi, quei giorni scorrono via inesorabili, come le ore successive all'ultima cena nella passione di Gesù, tra le normali notizie di cronaca e i resoconti del campionato nazionale di calcio, mentre i responsabili della politica del paese non lasciano niente di intentato per non impedire l'esecuzione della sentenza.

Dalla narrazione di Giovanni Bianconi emerge un quadro politico paralizzato, nel quale il PCI recita la parte dell'elemento intransigente, votato a distinguere nettamente la propria posizione da quella dei terroristi, discesi dalla medesima matrice marxista, ma che non potevano più essere benevolmente liquidati come «compagni che sbagliano». Dall'altro lato, la DC non poteva essere scavalcata da destra dai "berlingueriani", anche al cospetto degli alleati internazionali del nostro paese, in un contesto geopolitico ancora sostanzialmente di guerra fredda. In mezzo, ci furono i tentativi velleitari di smuovere la situazione messi in atto dal PSI di Craxi. E quei giorni passavano veloci attraverso le rughe sempre più profonde del segretario democristiano Benigno Zaccagnini, nell'inefficienza operosa dell'apparato poliziesco diretto da Cossiga, che dopo l'epilogo si dimise da Ministro degli Interni, in uno dei pochi gesti sensati della lunga carriera politica dell'ex presidente.


lunedì 24 agosto 2015

Leonardo Sciascia, "L'affaire Moro"

Leonardo Sciascia, L'affaire Moro, Sellerio, 1978

Opera letteraria o pamphlet a caldo contro un'intera classe politica? Difficile rispondere, anche se ci proverò.

Vorrei premettere che non ho sempre provato simpatia per le prese di posizione politiche di Leonardo Sciascia, troppo ambiguo, in qualche caso, nel decidere da che parte stare, quando è stata in gioco non dico la democrazia ma quanto meno la legalità. E tuttavia non posso - non si può - non riconoscere a L'affaire Moro alcune importanti qualità.
La prima è indubbiamente il coraggio di prendere una posizione netta sul "caso" a caldo, dopo pochi mesi dallo svolgersi dei fatti del marzo/maggio 1978.
La seconda dote del libro è l'onestà intellettuale, testimoniata in primis dalla premessa di non avere avuto alcuna simpatia né politica né umana per Aldo Moro, considerato esempio di trasformismo tipicamente democristiano, in altri tempi si sarebbe detto anche della morale gesuitica, attestato da un conservatorismo di fondo e da un insopprimibile attaccamento al potere, per di più ammantato di fumose velleità progressiste, come documenta il discorso pronunciato da Moro alla Camera dei Deputati in difesa del collega Luigi Gui, accusato di corruzione nell'ambito del famoso Scandalo Lockheed (discorso riportato da Sciascia pressoché integralmente e comunque nelle sue parti essenziali). La requisitoria dello scrittore siciliano nei confronti del presidente della DC si arresta al 16 marzo 1978, giorno della strage e del "prelevamento" (parola usata da Moro stesso) di Via Fani. Perché se il politico democristiano aveva fino a quel momento incarnato i peggiori vizi del suo partito (e Sciascia, pur senza scriverlo esplicitamente, sembra riconoscere alle Brigate Rosse di avere sequestrato la persona, o meglio la personalità, giusta, più di Andreotti o Fanfani, come pure era stato progettato), con la sua detenzione nella cosiddetta «prigione del popolo» di Via Montalcini, acquista una sua grandezza, soprattutto grazie alle verità che la sua inattesa situazione, pur nel suo linguaggio paludato, gli consente di esprimere. E tale sua nuova grandezza rifulge, in particolare, al confronto con gli altri politici italiani, con particolare riferimento a quelli del suo stesso partito, paralizzati dalla paura e comunque assai poco disposti a muovere un dito per liberare Moro dalle grinfie dei brigatisti.
Non ultimo merito dell'Affaire Moro è quello della provocazione polemica, del (si usava dire) sasso nello stagno, dello stimolo alla discussione, nel solco di un altro grande intellettuale, all'epoca scomparso non da molto. Non è un caso che il libro si apra con una citazione/omaggio a Pier Paolo Pasolini. Con quest'opera, piccola per mole, ma tutt'oggi ricordata, Sciascia sembra rivendicare a sé stesso e agli altri che ne abbiano il coraggio, il ruolo dell'intellettuale che interviene autorevolmente sui fatti del paese, anche con prese di posizione scomode e provocatorie, proprio come faceva Pasolini sui giornali e in televisione. È un ruolo che oggi sembra un po' in disuso, coltivato dal solo Roberto Saviano e pochissimi altri: mi vengono in mente, con parecchi distinguo, soltanto Aldo Busi, Pietrangelo Buttafuoco ed Erri De Luca.

Sciascia ha peraltro avuto la possibilità, in grazia della sua carica di deputato (eletto nelle liste radicali), di partecipare ai lavori della Commissione Parlamentare d'indagine sul Caso Moro ed infatti le edizioni successive del libriccino sono integrate con la relazione di minoranza della Commissione stessa, firmata dallo stesso scrittore siciliano.


Nel 1978 e negli anni successivi, L'affaire Moro ebbe l'effetto dirompente di un pamphlet, di una sorta di J'accuse a una intera classe politica, il cui molliccio e paludoso attaccamento al potere comportava come corollario l'inefficienza  degli apparati burocratici, polizieschi e militari (i cui vertici, si scoprirà qualche anno dopo, erano in larga misura iscritti alla loggia massonica P2), i quali, durante la prigionia di Aldo Moro, non vollero o non riuscirono a cavare un ragno dal buco. Ed ecco che nel corso degli anni, durante i quali si è scoperto molto del Caso Moro, ma soprattutto si è scoperto che non si è saputo tutto (e tanto si deve ancora immaginare), il libro di Sciascia, mantenendo inalterata la propria carica polemica, è diventato opera letteraria che smaschera, attraverso la scrittura e l'osservazione attenta della realtà, l'anima opaca non solo di una classe politica ma di un intero paese.

domenica 9 agosto 2015

Federico Maria Sardelli, "L'affare Vivaldi"

Federico Maria Sardelli, L'affare Vivaldi, Sellerio, 2015, pp. 304, € 14,00

Se oggi diamo per scontato un grande musicista come Antonio Vivaldi, l'autore delle Quattro stagioni, il merito è di due pubblici funzionari, Alberto Gentili, docente di Storia della musica all'Università di Torino, e Luigi Torri, direttore della Biblioteca Nazionale del capoluogo piemontese, che, nel periodo del fascismo, riportarono alla luce le opere manoscritte del Prete Rosso. Per lungo tempo, infatti, Vivaldi è stato un autore non dico sconosciuto, ma sicuramente dimenticato, considerato minore, rispetto ai contemporanei. All'epoca della morte, avvenuta nel 1741 a Vienna (dove sperava di rientrare nelle grazie della corte imperiale), Vivaldi era un musicista dimenticato da tutti, nonché ricoperto di debiti.
I suoi manoscritti, rimasti a Venezia, seguirono un itinerario tortuoso, prima di tornare alla luce e di potere essere acquisiti al patrimonio dello Stato italiano e quindi divenire fruibili da parte di tutti.

Federico Maria Sardelli, livornese, musicista (questa è la sua vera professione), oltre che scrittore, pittore ed umorista - e qualcos'altro che sicuramente mi sfugge - racconta questa storia con piglio da giallista e con la verve che gli conoscono coloro che hanno letto i suoi pezzi e le sue rubriche sul Vernacoliere e i suoi libri, tra i quali resta imprescindibile Il Libro Cuore (forse). Del resto, la vicenda dei manoscritti vivaldiani è di per sé un giallo ed anche piuttosto interessante. Sardelli controlla il proprio stile, attenendosi ai documenti d'epoca, ma non perde il sarcasmo che ne contraddistingue la scrittura. Ma qui l'autore satirico si fa di lato e cede il passo ai veri protagonisti del romanzo - che è anche un valido romanzo storico - cioè gli uomini che hanno riscoperto Vivaldi e la sua musica. E tra le righe ci viene ricordato di andare ad ascoltarla.

venerdì 24 luglio 2015

Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa

Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa, (ed. varie)

Qualche anno fa, rivendicando in televisione la propria felice omosessualità, Aldo Busi si contrappose a Giovanni Testori, il quale da cattolico credente e praticante, viveva la propria condizione macerandosi interiormente per i sensi di colpa. Devo dire che questa condizione descritta da Busi si ritrova, almeno in parte, nei racconti che compongono Il ponte della Ghisolfa.
Ogni tanto mi capita, leggendo un libro, di cercar di sintetizzare il genere in poche parole: riguardo a questo di Testori, la definizione che mi si è formata in mente è quella di "romanzo d'azione interiore". In questo senso, Il ponte della Ghisolfa ricorda, fatte le opportune differenze, qualcuno degli scritti di James Joyce. E in questo senso si può anche affermare che andrebbe incontro a una delusione chi pensasse di trovare in questi racconti di Testori i personaggi di Rocco e i suoi fratelli. La derivazione del film di Visconti dai racconti dello scrittore milanese riguarda soprattutto l'ambientazione e le suggestioni. Sulla pagina come sullo schermo si muovono, sullo sfondo delle periferie di Milano, anime sofferenti e coscienze in tumulto, più che persone.

L'ultimo racconto (Lo scopo della vita), uno dei più belli, fa addirittura venire in mente il primo Moravia, quello degli Indifferenti (anche qui con tutta una serie di distinguo, soprattutto dovuti all'espressionismo linguistico testoriano), a testimonianza che l'inettitudine morale, in Testori, non è più patrimonio esclusivo della borghesia, ma oramai ne sono affette anche le classi popolari che affollano le periferie dell'Italia del boom economico.

martedì 14 luglio 2015

Giuseppe Ghigi, Le ceneri del passato

Giuseppe Ghigi, Le ceneri del passato, Rubbettino, 2014, p. 261, € 13,60

La Grande Guerra e il cinema: un mezzo espressivo giovane e dinamico come il cinematografo non poteva non intervenire su quello che fu, all'epoca, l'evento più portentoso della storia umana. Dapprima con i mezzi tecnici tipici del cinema (macchina da presa, attrezzi vari), ma in funzione di cinegiornali, solo successivamente in quanto cinema di finzione vera e propria.
In principio fu la propaganda, pro o contro l'intervento bellico, poi quella per l'arruolamento, poi la propaganda contro il nemico, infine la celebrazione dei vincitori.
Solo dopo diversi anni, si riesce ad avere una riflessione pacata sulla Prima Guerra Mondiale. Solo all'inizio degli anni Trenta si riesce a riflettere sull''immane tragedia, generalmente in senso pacifista (del 1930 sono All'ovest niente di nuovo di Milestone e Westfront 1918 di Pabst). Ma durerà poco, perché alla fine degli anni Trenta si ricomincia il ciclo con riguardo alla Seconda Guerra Mondiale.
Ghigi ci parla delle intenzioni di realismo e delle falsificazioni, spesso non volontarie, che il cinema ha praticato intorno al tema della Grande Guerra, portando ad esempio film dai tempi del muto fino ad opere degli ultimi anni (per esempio Passchendaele di Paul Gross e Capitan Conan di Bertrand Tavernier). Vengono così fuori tutte le tematiche di cui si parla quando l'argomento è la guerra e in particolare quella guerra: i milioni di morti, le trincee, gli assalti inutili, gli atti di eroismo e di vigliaccheria, la demonizzazione del nemico (tra gli alleati, per esempio, era regola identificare i Tedeschi con l'appellativo di Unni), il dramma dei reduci, dei feriti e, in particolare, dei mutilati, quello dei loro parenti e dei familiari dei caduti, il ruolo delle donne nell'economia bellica, i gesti di pietà e il pentimento per le atrocità commesse in combattimento.

Quello di Giuseppe Ghigi è uno studio che fornisce una linea interpretativa e di lettura su quasi cento anni di cinema incentrato sulla Grande Guerra, ma anche, ad altro livello, un possibile repertorio di proposte cinematografiche per avere uno sguardo complessivo su un evento tanto importante e spaventoso.

domenica 14 giugno 2015

Riccardo Bacchelli, Il diavolo al Pontelungo

Riccardo Bacchelli, Il diavolo al Pontelungo

Trattandosi di un romanzo italiano del 1927, a chi lo legga oggi, a quasi novant'anni di distanza, Il diavolo a Pontelungo non può non far venire in mente la canzone La locomotiva di Guccini. Il tema è l'anarchia ed i gesti estremi compiuti in nome di questo ideale. Ovviamente, l'ottica dalla quale si guarda al tema è, nelle due opere, praticamente opposta. Guccini, che compone la propria canzone all'inizio degli anni Settanta, ripercorre lo svolgersi - anche psicologico -  del gesto di un anarchico, dettato dalla disperazione e dalla rabbia, inevitabilmente destinato al fallimento. Il cantautore guarda al suo protagonista con un misto di nostalgia e malcelato compiacimento, ripensando alla sua azione potenzialmente catastrofica, con una punta di affettuosa ammirazione, per la coerenza verso un'idea in nome della quale si era disposti a sacrificare la vita. Bacchelli considera l'ideologia anarchica da tutt'altro punto di vista (pur considerando altrettanto impossibile ogni realizzazione dell'utopia anarchica) e non ci si dimentichi che scrive il proprio romanzo durante i primi anni del periodo fascista. Gli anarchici del Diavolo al Pontelungo sono descritti come un'accozzaglia di pericolosi cialtroni e non somigliano per niente ai fascinosi avventurieri cantati da Leo Ferré in un celebre pezzo da lui firmato.
Nella prima parte del romanzo, gli anarchici che si radunano presso la fattoria denominata La Baronata, nel Canton Ticino, sono presentati come ottusi idealisti (in particolare Michail Bakunin e Carlo Cafiero), assolutamente incapaci di confrontarsi con le esigenze pratiche poste dalla vita, quando non come profittatori per niente propensi a qualsivoglia attività lavorativa. In particolare, il capo politico e spirituale dell'anarchismo europeo in questo scorcio di XIX secolo - cioè Bakunin - è descritto come un mestatore infantile, infatuato dei piani rivoluzionari messi a punto a suon di parole d'ordine e codici segreti, un uomo, insomma, con in bocca sempre l'idea della bella morte, magari in cima ad una barricata, , ma sostanzialmente votato al fallimento di ogni e qualsiasi attività posta in essere.
E un fallimento, peraltro tragicomico, è anche l'impresa finale di una sollevazione anarchica a Bologna, città dotta e tranquilla, già secondo centro, fino a pochi anni prima, dello Stato Pontificio.

Suddivisa tra la prima parte ambientata nella campagna della Svizzera italiana e la seconda che si svolge nel capoluogo emiliano, la struttura del romanzo tende alla simmetria, con le due imprese - quella della Baronata e quella della sollevazione bolognese - alla cui testa viene posto Bakunin dai due alfieri dell'anarchismo italiano (Carlo Cafiero e Andrea Costa), destinate ad altrettanti sonori fallimenti, al centro delle rispettive due sezioni. Cafiero e Costa sono i simboli di un modo di essere italiani, pronti a tirarsi indietro per paura od opportunismo, un minuto prima dell'esplosione, dopo avere dato fuoco alla miccia. Ma Bakunin, vittima di un senile infantilismo e dei propri sogni di gioventù, ingenuo e vanitoso al tempo stesso, ci fa probabilmente la figura peggiore. Tanto che, all'epoca dell'uscita del romanzo, Bacchelli si dovette difendere dagli attacchi di un nipote dell'anarchico russo.

sabato 2 maggio 2015

Aldo Palazzeschi, Sorelle Materassi

Aldo Palazzeschi, Sorelle Materassi, 1934

Romanzo della maturità del fiorentino Aldo Giurlani, in arte Palazzeschi, abbandonati i codici futuristi e smessi i panni da incendiario dei versi giovanili.
La crosta di Le sorelle Materassi è umoristica - leggendo il libro si ride spesso e spessissimo si sorride - ma la sostanza è amara, perché qui si narra la storia della parabola rovinosamente discendente di due sorelle attempate della borghesia campagnola del contado fiorentino nel primo scorcio di Novecento. Rovinate economicamente da un nipote furbissimo e parassitario cui non riescono a non perdonare ogni imbroglio, le Materassi vivono davvero soltanto nell'ombra del nipote, il quale, dopo avere succhiato ogni loro sostanza, le abbandona miseramente. E nonostante ciò, per le due sorelle (e anche per la loro fantesca Niobe), il ricordo struggente del nipote resterà l'unica consolazione del tramonto della loro vita.

Lo stile di Palazzeschi è realistico, quasi si trattasse di una proiezione toscana del verismo di stampo verghiano. Lo scrittore sfiora a più riprese il bozzettismo, nella descrizione di certe figurine tipiche del paesaggio fiorentino di campagna, ma schiva questo rischio grazie alla capacità di dare ai propri personaggi finezze e sfumature psicologiche. Che poi forse costituiscono l'altra faccia della bonomia dello scrittore, quasi incapace di andare a fondo quando si tratta di creare un personaggio integralmente negativo (quale sarebbe potuto risultare il nipote Remo, il quale resta invece soltanto un bellimbusto, cinico, ma sentimentale).

domenica 22 febbraio 2015

Michel Houellebecq, Sottomissione

Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, 2015, pp. 252, € 17,50

«L'ambizione possente di Michel Houellebecq è di leggere il mondo attraverso l'economia e l'umanità attraverso il sesso, ossia di decodificare l'universo tramite le relazioni di scambio, confinando al fanatismo e all'amore le uniche possibilità di errore, i soli scostamenti non prevedibili dal risultato atteso».
Questo non è un mio commento originale a Sottomissione (2015) di Houellebecq, ma un estratto della recensione di un critico, Simone P. Barillari, scritta nel 2001 a proposito di un altro libro dello scrittore francese, Piattaforma nel centro del mondo. Molte delle parole poste dal critico a commento di questo precedente romanzo di Houellebecq possono fungere da (parziale) chiave di lettura anche per Sottomissione. E perfino quanto fu scritto riguardo a Piattaforma nel centro del mondo ed oggi non si può ripetere per Sottomissione - perché i fatti e gli anni non passano invano né gli scrittori possono sempre scrivere lo stesso libro (sebbene taluni lo facciano per un'intera vita) - può essere utile a capire meglio il romanzo del 2015. Scriveva infatti Barillari all'epoca, a proposito di Piattaforma nel centro del mondo, che «diventano marginali e irrilevanti politica e arte, tutta la tecnologia e le fondamenta stessa (forse dovrebbe leggersi stesse, n.d.r.) della storia: miserabili dati non significativi all'equazione di un mondo che ha nel suo destino "di assomigliare sempre di più a un aeroporto"». Da questo punto di vista, Houellebecq ha cambiato totalmente opinione o, in ogni caso, propone in Sottomissione un mondo - la Francia, ma il contesto internazionale descritto è estendibile almeno all'intero occidente - profondamente influenzati dalla politica (dimensione collettiva) e dall'arte (dimensione individuale). Mi sembra altrimenti impossibile, prescindendo dalle dinamiche politiche, anche brutalmente elettorali, capire il nuovo romanzo del romanziere francese e il suo personaggio principale senza considerare la stella polare rappresentata dallo scrittore Joris Karl Huysmans, il rappresentante maggiore, nell'ambito della narrativa, del Decadentismo letterario francese.
C'è un'altra frase, scritta dal critico Barillari a commento di Piattaforma nel centro del mondo, che può addirittura vedersi come filo conduttore per Sottomissione: «Irruzione del fanatismo religioso nell'ambito della prima rigorosa applicazione dell'economia di mercato alla sessualità». Il protagonista è infatti un professore universitario parigino di Letteratura moderna alla Sorbona, specializzato in Huysmans, che passa da una relazione all'altra con le studentesse del suo corso di studi, vivendo nel contesto privilegiato e un po' ovattato di una prestigiosa università della capitale di un grande paese occidentale. Questa situazione dura finché non si verifica un fatto - forse nei precedenti romanzi di Houellebecq si sarebbe trattato di un puro accidente? - tutto sommato imponderabile: la vittoria alle elezioni presidenziali del partito musulmano, grazie alle abili manovre e prese di posizione del suo leader Mohammed Ben Abbes. Siamo nel 2022 e quella di Houellebecq è tecnicamente una distopia letteraria. Bisogna peraltro riconoscere che raramente uno scrittore ha pubblicato un romanzo in un momento storico più appropriato, seppure in senso tragico. Sottomissione è infatti stato pubblicato il 7 gennaio di quest'anno (in Italia è uscito il 15), lo stesso giorno dell'orribile attentato di Parigi al settimanale satirico Charlie Hebdo.
Com'è ovvio, il romanzo non dà - né vuole dare - un'ipotesi di soluzione, a meno che non s'intenda per tale la sottomissione del titolo, sulla scia della svolta mistica dell'ultimo Huysmans, piuttosto solleva anche dal punto di vista ideologico e letterario una questione attuale già oggi e che non potrà non avere conseguenze sociali e politiche nell'immediato futuro di tutti noi europei. Houellebecq è uno scrittore abile, intelligente e intellettualmente stimolante. La sua è indubitabilmente Letteratura, merce sempre più rara nel panorama dell'attuale narrativa europea. Sottomissione non è, secondo me, un romanzo privo di difetti, che risiedono soprattutto in una troppo repentina accettazione da parte di tutta la società francese delle nuove regole imposte dal regime musulmano/socialista del Presidente Ben Abbes: molti professori universitari si adeguano subito e per opportunismo alla conversione all'Islam e abbracciano la poligamia. Un paese fucina di elaborazione ed espressione politica (anche in termini di manifestazioni di piazza) come la Francia, per di più descritto qui con una grande fetta dell'elettorato orientata a destra, non potrebbe piegare la testa a mutamenti politici e istituzionali, nonché di costume, di tale portata. Del resto,  questo è stato testimoniato anche dalle recenti dimostrazioni seguite alla strage del Charlie Hebdo. Ciò non toglie, tuttavia, che Sottomissione sia uno dei non moltissimi romanzi di recente uscita da leggere assolutamente. Anche perché non deve essere abbandonata quella specie in via d'estinzione che si chiama Letteratura, ciò che ancora può farci riflettere se la scelta finale del protagonista di Sottomissione sia la logica conseguenza dell'adozione del percorso seguito dal maestro Huysmans, o se, come scrive ancora Barillari al termine della sua recensione di Piattaforma nel centro del mondo, non costituisca una dichiarazione «di nauseata resa al nulla».

martedì 17 febbraio 2015

Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute

Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute, Mondadori, 2013, pp. 142, € 9,50.

Avevo in precedenza letto il libro di Guccini successivo a questo, vale a dire il Nuovo dizionario delle cose perdute e devo ammettere che in questo caso la seconda opera è migliore della prima. Evidentemente, l'esperienza ha permesso al cantautore toscoemiliano (lo definisco così per l'infanzia trascorsa nella frazione pistoiese di Pàvana, dove ricevette l'imprinting) di aggiustare il tiro. Ciononostante, tra le "cose" elencate e raccontate da Guccini ve ne sono alcune, come al solito, interessanti e divertenti. Tra queste, mi colpisce in particolare il capitolo dedicato, tra i giochi di una volta, al crocchiaballe, che è nella sostanza la stessa arma che usavamo da bambini anche noi e che non ero mai riuscito a trovare da altre parti e cioè la bugìttola. L'unica differenza con il crocchiaballe gucciniano è che questo voleva come proiettili delle palline di stoppa, mentre noi usavamo le ghiande.

Un'operazione «color nostalgia» come le stoviglie di Incontro, allo scopo di non perdere la memoria di piccole e grandi "cose" che hanno silenziosamente fatto parte delle nostre vite e che altrettanto silenziosamente sono scomparse nei meandri del tempo.

lunedì 16 febbraio 2015

Giacomo, fratello di Gesù

Claudio Gianotto, Giacomo, fratello di Gesù, Il Mulino, 2013, pp. 144, € 13,00


Quando ho parlato a mia madre di Giacomo, fratello di Gesù, lei ha commentato «è una specie di Il codice Da Vinci, insomma». E invece no, tutt'altro. Claudio Gianotto non è un romanziere d'assalto, interessato all'esoterismo, alle trame segrete dell'alta finanza e a scalare le classifiche di vendita, bensì un serissimo professore universitario di Storia del Cristianesimo. È infatti ormai assodato che Gesù ebbe dei fratelli, il più influente dei quali fu appunto Giacomo, detto il Giusto. Fu quest'ultimo a prendere le redini del movimento alla morte del fondatore, almeno fino a che, tra i seguaci del Cristo, prevalse quella che potremmo definire l'ala petrina e paolina. Se, infatti, il Cristianesimo nacque e si sviluppò all'interno dell'Ebraismo, con il suo diffondersi attraverso l'Impero Romano entrò in contatto con gli aderenti a tutti gli altri culti professati in quello Stato, e in particolare con la parte più numerosa, cioè con i cosiddetti pagani. Era inevitabile che, non fosse altro che per ragioni puramente numeriche, la porzione di Cristiani di origine ebraica diventasse ben presto minoritaria. E quindi i contrasti dottrinari e pastorali tra Giacomo da una parte e Paolo dall'altra videro un'iniziale prevalenza del primo, ma nella storia della Chiesa è stato il secondo a prevalere nettamente e definitivamente. Questo è tanto vero che di Giacomo il Giusto si è perfino persa la memoria, anche tra coloro che praticano i riti cristiani in generale. Molti lo confondono ormai con il discepolo conosciuto come Giacomo il Maggiore e invece era uno dei figli di Maria, o forse di Giuseppe, insomma, fratello vero di Gesù.

giovedì 1 gennaio 2015

Qualche libro (leggerino) che ho letto nel 2014


Daniela Delfini, Enrique Fuster, José Maria Galván, Verso Dio nel cinema, San Paolo, 2013, pp. 183, € 15

Claudio Chianura, Le canzoni nei film di Nanni Moretti, Auditorium Edizioni, 2012, pp. 124, € 14,50

Francesco Guccini, Nuovo dizionario delle cose perdute, Mondadori, 2014, pp. 148. € 12 (molto meno in donwload)