Federico
Maria Sardelli, L'affare Vivaldi, Sellerio, 2015, pp. 304, € 14,00
Se oggi diamo per scontato un grande musicista come Antonio Vivaldi, l'autore delle Quattro stagioni, il merito è di due
pubblici funzionari, Alberto Gentili,
docente di Storia della musica all'Università di Torino, e Luigi Torri, direttore della Biblioteca Nazionale del capoluogo
piemontese, che, nel periodo del fascismo, riportarono alla luce le opere
manoscritte del Prete Rosso. Per lungo tempo, infatti, Vivaldi è stato un autore non dico sconosciuto, ma sicuramente
dimenticato, considerato minore, rispetto ai contemporanei. All'epoca della
morte, avvenuta nel 1741 a Vienna (dove sperava di rientrare nelle grazie della
corte imperiale), Vivaldi era un
musicista dimenticato da tutti, nonché ricoperto di debiti.
I suoi manoscritti, rimasti a Venezia, seguirono un itinerario
tortuoso, prima di tornare alla luce e di potere essere acquisiti al patrimonio
dello Stato italiano e quindi divenire fruibili da parte di tutti.
Federico
Maria Sardelli, livornese, musicista (questa è la sua
vera professione), oltre che scrittore, pittore ed umorista - e qualcos'altro
che sicuramente mi sfugge - racconta questa storia con piglio da giallista e
con la verve che gli conoscono coloro che hanno letto i suoi pezzi e le sue
rubriche sul Vernacoliere e i suoi
libri, tra i quali resta imprescindibile Il
Libro Cuore (forse). Del resto, la vicenda dei manoscritti vivaldiani è di
per sé un giallo ed anche piuttosto interessante. Sardelli controlla il proprio stile, attenendosi ai documenti
d'epoca, ma non perde il sarcasmo che ne contraddistingue la scrittura. Ma qui
l'autore satirico si fa di lato e cede il passo ai veri protagonisti del
romanzo - che è anche un valido romanzo storico - cioè gli uomini che hanno
riscoperto Vivaldi e la sua musica.
E tra le righe ci viene ricordato di andare ad ascoltarla.
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