Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa, (ed. varie)
Qualche anno fa, rivendicando in televisione la
propria felice omosessualità, Aldo Busi
si contrappose a Giovanni Testori,
il quale da cattolico credente e praticante, viveva la propria condizione
macerandosi interiormente per i sensi di colpa. Devo dire che questa condizione
descritta da Busi si ritrova, almeno
in parte, nei racconti che compongono Il
ponte della Ghisolfa.
Ogni tanto mi capita, leggendo un libro, di cercar
di sintetizzare il genere in poche parole: riguardo a questo di Testori, la definizione che mi si è
formata in mente è quella di "romanzo d'azione interiore". In questo
senso, Il ponte della Ghisolfa ricorda,
fatte le opportune differenze, qualcuno degli scritti di James Joyce. E in questo senso si può anche affermare che andrebbe
incontro a una delusione chi pensasse di trovare in questi racconti di Testori i personaggi di Rocco e i suoi fratelli. La derivazione
del film di Visconti dai racconti
dello scrittore milanese riguarda soprattutto l'ambientazione e le suggestioni.
Sulla pagina come sullo schermo si muovono, sullo sfondo delle periferie di
Milano, anime sofferenti e coscienze in tumulto, più che persone.
L'ultimo racconto (Lo scopo della vita), uno dei più belli, fa addirittura venire in
mente il primo Moravia, quello degli
Indifferenti (anche qui con tutta una
serie di distinguo, soprattutto dovuti all'espressionismo linguistico
testoriano), a testimonianza che l'inettitudine morale, in Testori, non è più patrimonio esclusivo della borghesia, ma oramai
ne sono affette anche le classi popolari che affollano le periferie dell'Italia
del boom economico.