domenica 31 marzo 2013

Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia, Laterza, 2012, p.369, € 18,00

Ci sono dei libri che danno una soddisfazione maggiore di quella che deriva dal semplice piacere della lettura in sé. I prigionieri dei Savoia è uno di questi, perché conferma un'opinione che mi ero fatto alcuni anni fa, leggendo un altro libro, sullo stesso argomento, anche se di segno opposto, intitolato Indietro Savoia! (2003), di Lorenzo Del Boca. Di questo autore, nel testo del prof. Barbero, viene citato un altro saggio, di orientamento analogo ma precedente a quello che avevo letto io, cioè Maledetti Savoia (1998).
La situazione va un po' inquadrata. Alessandro Barbero afferma espressamente che il suo libro nasce nell'ambito e come risposta al fenomeno che viene normalmente definito "pubblicistica neoborbonica", il quale ha preso piede negli ultimi anni in Italia, in contrapposizione alla storiografia ufficiale sul Risorgimento. Per quanto mi riguarda, penso che nei circa centocinquant'anni che ci separano dalla spedizione dei Mille di Garibaldi e poi dall'Unità d'Italia (data ufficiale, come ormai sappiamo, il 17 marzo 1861) sia stata fatta fin troppa retorica riguardo al Risorgimento, sebbene si debba rispetto ai tanti che dettero la vita per questa causa. E lungi da me sia l'intenzione di prendere le parti di una dinastia regnante francamente indifendibile come quella dei Savoia, i cui membri hanno presentato magagne davvero imperdonabili. Però qualsiasi critica deve basarsi sui fatti e quindi spetta allo storico verificare se la revisione storica su un fenomeno fondamentale per la nostra storia si basi su fatti veridici, perché non si trasformi in deleterio revisionismo. Di quest'ultimo fenomeno fa parte, secondo me, l'opera di Del Boca (quanto meno il libro che mi è capitato di leggere), dove ci si lasciava andare ad affermazioni gratuite, del tipo che «Cavour era un secchione, con la testa sempre immersa tra i libri», oppure che «le SS dell'Ottocento indossavano la divisa dell'esercito del Piemonte», ma anche ad improvvidi paragoni con la politica dei nostri tempi, in particolare per paragonare la politica militare savoiarda con la "Missione Arcobaleno" voluta dal Governo D'Alema (???).
Ecco, insomma, in questo contesto nasce il libro di Alessandro Barbero, che intende controbattere ad affermazioni, fatte da diversi autori, sul tipo di quella che ho riportato sopra, relativa al paragone tra i soldati sabaudi e le SS naziste. In particolare, Barbero ricostruisce la congiura che fu scoperta nel forte di Fenestrelle, sulle Alpi piemontesi: il sottotitolo del libro, infatti, è La vera storia della congiura di Fenestrelle. Per ricostruire la vicenda della congiura, però, Barbero è costretto a partire da un po' più lontano, in particolare dalla spedizione dei soldati sabaudi nel Regno delle Due Sicilie e dal destino dei prigionieri di guerra presi durante quella "guerra non dichiarata". Lo scopo dell'autore (peraltro piemontese come Del Boca), infatti, non è quello di difendere i Savoia, ma di verificare sul campo quanto scritto dagli autori che per comodità chiamerei neoborbonici, in particolare in merito al fatto che, secondo costoro, Fenestrelle sarebbe stato una sorta di campo di sterminio (qualcuno arriva ad affermare che sarebbe servito da modello per Auschwitz!), dove persero la vita migliaia di prigionieri borbonici, poiché si erano rifiutati di giurare fedeltà nell'esercito di Vittorio Emanuele II. Senza entrare nel merito dei dati e delle ricerche fatte da Barbero (che rendono alquanto pesante la prima parte del libro, ma di certo è più suggestivo buttare là delle ipotesi che non mettersi a spulciare documenti d'archivio e renderne conto), si possono riassumere le conclusioni cui l'autore giunge, nel senso che Fenestrelle era una fortezza militare, sede anche di un corpo speciale e punitivo dell'esercito (i Cacciatori Franchi), ma che niente aveva del lager; Barbero dimostra altresì che i soldati meridionali che morirono a Fenestrelle furono pochissimi (peraltro non tutti ex militi borbonici), in numero del tutto fisiologico per una caserma (la maggiore causa di decesso fu il tifo) di quel 1861 e che la congiura smascherata nell'agosto di quell'anno portò a dieci arresti e a condanne tutt'altro che pesanti, contrariamente a quanto viene ultimamente raccontato dai revisionisti neoborbonici.
Alla fine, vorrei soltanto riportare qualche riga dedicata da Barbero a Del Boca (cui contrappone un rigoroso metodo storico - scientifico), già presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e per una decina d'anni dell'Ordine dei giornalisti: «Il suo libro (Maledetti Savoia, n.d.r.) s'inserisce nella moda del rancoroso revisionismo nei confronti del periodo risorgimentale, e riscuote un notevole successo. Eppure, per quanto riguarda le pagine dedicate al nostro argomento il libro di Del Boca è un ammasso di falsità e di errori. [...] Uno storico potrebbe essere interessato, a questo punto, alla ricchissima documentazione prodotta dall'amministrazione piemontese, dove ogni singolo individuo è stato registrato con burocratica precisione, ma il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana preferisce tagliar corto: "Certo le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate da nessuna parte". Sarebbe interessante sapere se questo bel modo di dare le notizie, o meglio di inventarle, sia abituale presso i giornalisti italiani, che si sono riconosciuti unanimemente e così a lungo in Del Boca; è un fatto che il suo libro ha contribuito non poco a far degenerare il linguaggio usato da chi si occupa di questa questione, e a mettere in circolo mistificazioni prive di qualunque fondamento».
In conclusione, direi che I prigionieri dei Savoia è un libro interessantissimo, dal punto di vista storico ed anche in funzione di un'interpretazione più consapevole dell'Italia di oggi, anche se non raggiunge le vette di capolavori di Alessandro Barbero, quali La battaglia (2003, su Waterloo) e Lepanto. La battaglia dei tre imperi (2010).

sabato 9 marzo 2013

Anna Funder, C'era una volta la DDR, Feltrinelli, 2010, pp. 256, € 8,00

Dice la Funder che per comprendere cosa sia stata la DDR è necessario raccontare le storie delle persone comuni, non solo degli attivisti o degli scrittori famosi. E forse è anche più facile, perché consente di non doversi leggere e studiare libri e documenti sull'argomento: basta intervistare qualche sopravvissuto. Operazione anche questa non difficile, poiché stiamo parlando di una storia che è finita meno di un quarto di secolo fa e che anche chi, come il sottoscritto, non è particolarmente vecchio, si ricorda più che bene. Questo è uno dei difetti di C'era una volta la DDR, un libro che fin dal titolo rimanda alle favole per ragazzi, ma che, non so quanto appropriatamente, si trova nel reparto di Storia delle librerie. Gli altri difetti risiedono principalmente nella scrittura della scrittrice australiana, che affronta il libro con un approccio prettamente femminile, sia nello stile che nell'oggetto del racconto: non a caso, dalla parte delle vittime, si trovano quasi tutte donne, mentre dal lato dei "carnefici", gli agenti della Stasi, si trovano tutti rappresentanti del sesso maschile. Eppure, la premessa era che nella DDR un cittadino su sei era un agente del famigerato servizio segreto: che fossero tutti maschi? Poi c'è lo stile della Funder, che indulge fastidiosamente a raccontare particolari inutili ed autoreferenziali, quasi che avesse bisogno di riempire le pagine con notazioni personali, le quali, nell'economia del libro (non lo definirei, come fa la Feltrinelli, "saggio") rivestono un'importanza pressoché nulla. Faccio un solo esempio, ma il libro è pieno zeppo di periodi come questo: «Mi reggo alla maniglia della portiera con una mano e tengo stretto lo zainetto in grembo con l'altra. Mi chiedo se lo zainetto possa avere un qualche effetto come airbag». A merito della scrittrice va la passione con la quale racconta le storie di gente comune, la cui vita è stata condizionata, quando non rovinata, dalla presenza pervasiva di un regime che si manifestava spesso attraverso la sua polizia segreta e che si era fatto conoscere dal resto del mondo grazie alla costruzione di un Muro, vigilato dal filo spinato e da guardie pronte a sparare.
Chi voglia sapere di più sulla Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990) deve rivolgersi ad altri testi; ma anche opere cinematografiche, come Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck, o letterarie, come Tentativi di avvicinamento (1980) di Hans Joachim Schädlich.

lunedì 4 marzo 2013

Alexandre Dumas, I fratelli corsi, Donzelli, 2009, p. 149, € 19,50

Dumas padre era un narratore puro, uno che badava alla trama da raccontare, più che ai risvolti psicologici dei suoi personaggi. O almeno è così in questo racconto lungo, ambientato per una buona metà in Corsica, un luogo che, contrariamente a quanto appare dal testo in esame, lo scrittore francese non visitò mai. In appendice a I fratelli corsi, si legge in questo volumetto edito da Donzelli anche un secondo racconto, ambientato in Italia, I due studenti di Bologna, accomunato al primo dall'elemento spiritico e soprannaturale. Il primo racconto parla infatti di due fratelli, accomunati, oltre che per essere gemelli, anche dal fatto che entrambi condividono lo stesso destino di vedere i fantasmi degli antenati ogniqualvolta si trovano ad affrontare un momento fondamentale della loro vita, ma anche dalla facoltà di percepire ciascuno i dolori e le preoccupazioni dell'altro. In I due studenti di Bologna il motore dell'azione è un patto che i due amici del titolo (il cui sentimento sembra, seppur velatamente, travalicare i confini di una "normale" amicizia) stipulano, come si narra che fece San Giovanni Bosco con un collega del seminario: il primo di loro che fosse morto sarebbe apparso all'altro. E così fanno, per sventare un piano criminale ed assicurare alla giustizia i sequestratori che avevano ucciso uno dei due. E, alla fine, molto ottocentescamente, vissero felici e contenti. O meglio, visse solo uno dei due studenti, ma sposando la sorella dell'amico defunto. Una lettura decisamente divertente, sebbene a posteriori non rimanga una grande impressione di spessore letterario. O forse è soltanto una mia sensazione.