sabato 28 gennaio 2012

Rashômon e altri racconti

Ryunosuke Akutagawa, Rashômon e altri racconti, TEA, 2002, pp. 304, € 9,00
Akutagawa (1892-1927) fu uno scrittore, la cui breve parabola artistica coincise con la sua breve vita: probabilmente rendendosi conto di star perdendo l'ispirazione, si suicidò ad appena trentacinque anni. E questo elemento tragico potrebbe anche suonare contraddittorio, se si considera che Akutagawa era un giapponese che si era convertito al cristianesimo. Non tutti i racconti di questa raccolta raggiungono lo stesso livello e, essendo stati composti in periodi lontanissimi, affrontano le tematiche care all'autore - sinteticamente, l'estrema difficoltà di afferrare il senso della vita (non ci scordiamo che Akutagawa fu un contemporaneo di Kafka) - con stili diversissimi: così, per citare soltanto i racconti che mi sono sembrati i suoi migliori, si passa dall'estremo realismo di Rashômon e Nel bosco (fondendo i quali Akira Kurosawa genialmente compose la sceneggiatura del suo primo grande successo internazionale) alle atmosfere satiriche e fantastiche di Toshishun e Nel paese dei Kappa. Molto significativo, per comprendere l'approccio cristiano alla vita di Akutagawa, anche il bel racconto Il Gesù di Nanchino, dove una giovane prostituta malata di sifilide, grazie al suo proposito di non accoppiarsi più con gli uomini per non essere causa di morte, viene riscattata da un redivivo Gesù, materializzatosi sulla Terra sotto la forma di un giovane puttaniere americano. Per dirla tutta, l'esperienza di lettura di questa raccolta di racconti non è stata esaltante come avrei sperato - ma non è stata l'unica delusione che ho ricevuto in quest'ultimo periodo - però il libro di Akutagawa tutto sommato appaga il lettore curioso di capire di più di una cultura che, nonostante tv e cinema, conosciamo ancora poco.

New Maps Of Hell

Bad Religion, New Maps Of Hell, 2007.
«Welcome to the new dark ages
I hope you're living right
These are the new dark ages
And the world might end tonight»
(New Dark Ages)
(Benvenuti nei nuovi tempi bui, spero che conduciate una vita giusta. Questi sono i nuovi tempi bui, e il mondo potrebbe finire stanotte)
Bad Religion sono grandi perché se ne sbattono delle mode e delle tendenze musicali e paramusicali. Tanto per dire, ai concerti, dopo due ore di sudate, non concedono bis e nei dischi non inseriscono bonus néhidden tracks. Questo New Maps Of Hell procede sulla strada dei migliori Bad Religion, quelli di Against The Grain (1991), Generator (1992) e Recipe For Hate (1993), nel solco dei vecchi lavori della band, ripreso con il penultimo album The Empire Strikes First del 2004. I singoli pezzi sono tutti validi, e la perizia tecnica con la quale sono suonati fa sì che si apprezzino meglio dopo ripetuti ascolti, che valorizzano i continui cambi di ritmo - caratteristica che costituisce una indubbia evoluzione rispetto alle origini del punk - e perfino i coretti di sottofondo (gli oozin oohs and aahs, come li definisce il libretto), ci si rende conto, sono più apocalittici che enfatici. Inutile citare le singole canzoni (vabbe', cito New Dark Ages, perché si può ascoltare qui): non c'è una 21st Century Digital Boy, una Generator o una American Jesus, che spicchi sulle altre. New Maps Of Hell costituisce comunque una salda roccia nel mare della musica contemporanea.

Canto n. 6

Canto n. 6
Io come Orlando
corro nudo e furioso
nella pioggia.
Non canto cavalier né canto armi
né amori o donne
ma soffro e offro la testa
ai sassi e al boia
e alla sua scura scure
che semi di buio pianti
nel giardino dei miei occhi.Opera di Charles Keegan

Screaming For A Love-Bite

Accept - Screaming For A Love-Bite (dall'album Metal Heart, 1985)
Screaming for a love-bite
And you hide it, that it makes you feel alrightMetal Heart
See your secret in a mirror
It's black'n'blue and it happened to you
In the heat of the night

It hurts just the first time
Ooh, it hurts
It hurts just the very first time

Screaming for a love-bite
For a love-bite
Hiding that it feels right
Screaming for a love-bite

Grinding makes so uptight
And you gotta face it, 'cause it decorates your neck
It's gonna stay there
Stay there for a long time
Just to remind you while you like it
When you went on and on

It hurts just the first time
Ooh, it hurts
It hurts just the very first time

Screaming for a love-bite
For a love-bite
Hiding that it feels right
Screaming for a love-bite
Screaming for a love-bite ...

Trad. it. (mia): Urli per un morso d'amore - e te lo nascondi, che ti fa sentire bene - Vedi il tuo segreto in uno specchio - è nero e blu ed è successo a te - nel bel mezzo della notte.
Fa male solo la prima volta - Oh, se fa male - fa male solo la primissima volta.
Urlare per un morso d'amore - per un morso d'amore - nascondersi che ci si sente bene - urlare per un morso d'amore.
Stridere i denti rende molto tesi - e lo devi fronteggiare, perché ti decora il collo - e resterà lì - ci resterà a lungo - proprio per ricordarti quanto ti piaceva - mentre ci davi dentro.
Fa male solo la prima volta - Oh, se fa male - fa male solo la primissima volta.
Urlare per un morso d'amore - per un morso d'amore - nascondersi che ci si sente bene - urlare per un morso d'amore.

Brighter Than A Thousand Suns

Una delle traduzioni di canzoni più difficili che mi sia mai capitato di fare. A riprova che i testi degli Iron Maiden non sono mai banali. Comunque ci provo, anche perché in rete non sono riuscito a trovare un'altra traduzione.
Iron Maiden - Brighter Than A Thousand Suns
Noi non siamo i figli di Dio
Non siamo più il Suo popolo eletto
Abbiamo deviato dal sentiero su cui Lui ha camminato
Proveremo il dolore del Suo inizio
Dita d'ombra si sollevano in alto
Dita di ferro pugnalano il cielo deserto
Oh, ecco il potere della Terra
I vostri figli sono pronti per la caduta?
Serrando bene le mani giunte
Radete al suolo una città, costruite un inferno vivente
Partecipate alla corsa al suicidio
Ascoltate i rintocchi della campana
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Questo sole giallo è il gemello cattivo
nel nero i venti lo liberano
A un assedio si squarcia una vampata nucleare
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Fuori del buio, più splendente di mille soli.
Seppellendo i nostri principi morali, seppellendo i nostri morti
Nascondendo la nostra testa sotto la sabbia
E=mc², non si riesce a collegare
Come abbiamo fatto Dio con le nostre mani
Qualsiasi cosa abbia detto Robert al suo Dio
Sull'aver fatto la guerra al Sole
E=mc², non si riesce a collegare
Come abbiamo fatto Dio con le nostre mani
Medagliette di Satana
Tutte le nazioni si stanno sollevando
Attraverso campane acide d'amore e odio
L'incertezza ci ha ridotto così.
Tutte le nazioni si stanno sollevando
Attraverso campane acide d'amore e odio
Confusione e Furore
Questo corpo li ha portati giù invano
Io predicavo una piccola preghiera
Nel bunker in cui moriremo
Siamo i boia che mentono
Bombardieri lanciati senza possibilità d'essere richiamati
Brevissimo avvertimento sullo sganciamento del missile
Date un'occhiata al vostro ultimo giorno
Immaginando che non avrete il tempo di piangere
Fuori dall'universo, è nata una strana luce
Empia unione, trinità riformata
Fuori dal buio...
Fuori dal buio...
Fuori dal buio, più splendente di mille soli
Padre santo abbiamo peccato...

Poesiola natalizia

Poesiola natalizia

di sasso67 (24/12/2005 - 23:10)

S'i' fossi foco
arderei una scurreggia
per veder se davvero
fa la fiammata.
(Che poi non è nemmeno molto natalizia, ma che colpa ho io se m'è venuta proprio per la vigilia di Natale?)

Cuori neri

Luca Telese, Cuori neri, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 796 ill., € 18,00
Al di là dell'argomento trattato e al di là della forma - che, secondo me, avrebbe potuto essere migliore - quello che piace di questo libro è la morale finale che ne emerge. La quale potrà anche essere tacciata di buonismo, ma oggi, nel 2006, è eticamente e politicamente inoppugnabile. E si può sintetizzare in questa frase che Telese pone alla fine del suo monumentale libro (p. 764): «Siamo stati, non molto tempo fa, talebani anche noi. E il nostro fanatismo di allora non ha nulla da invidiare a quello che ci piace contestare agli altri oggi. Cambiano i soggetti contro cui sono rivolte, non gli strumenti intellettuali con cui vengono forgiate le armi dell'odio».
Al di là delle polemiche sterili sul fatto che sia necessario anche un libro sulle vittime "di sinistra" degli anni di piombo (e probabilmente ve ne sono), va detto che questo libro era innanzitutto doveroso, in primo luogo verso la memoria degli stessi morti (non li chiamerei né caduti né martiri) e verso le loro famiglie che in tutti questi anni hanno vissuto il dolore di una perdita (o più, come nel caso dei Mattei di Primavalle) che non potevano nemmeno ricordare senza essere vittima dell'indifferenza degli avversari politici oppure della strumentalizzazione da parte degli "amici".
Se la forma lascia alquanto a desiderare, la lettura di Cuori neri, che, come al solito, non mancherà di suscitare polemiche a destra come a sinistra, è interessantissima, anche perché porta finalmente a conoscenza di un pubblico vasto eventi che per decenni sono rimasti patrimonio esclusivo di piccole comunità anche abbastanza chiuse, unite dal grido "Presente!" ad ogni anniversario.
Cuori neri elenca, uno dopo l'altro, i nomi di ventuno vittime accomunate dalla militanza o anche soltanto dalla simpatia per le formazioni politiche di destra. In alcuni casi, addirittura questa militanza è messa in dubbio dagli stessi familiari: esemplare, ma non è l'unico, il caso del greco Mikis Mantakas. Ci sono casi più noti (Ramelli, Acca Larentia) ed altri meno, alcuni più atroci degli altri (Primavalle tra tutti), ma tutti tragici e probabilmente inutili, essenzialmente perché tutte queste morti erano evitabili ed hanno rovinato una serie di altre vite: quelle dei familiari così come quelle degli assassini, anche se troppo spesso questi omicidi sono rimasti impuniti. Un altro rischio del libro di Telese è quello, ben presente all'autore, di fare di questi morti dei santini, di renderli tutti buoni e perfino poco fascisti; e amio parere, nonostante tutto, nonostante anche quello che dice uno che buono non ha mai preteso di essere come Giusva Fioravanti a proposito di Alberto Giaquinto, una delle vittime («Se fosse sopravvissuto, Alberto avrebbe sicuramente seguito tutto il destino dei Nar»), a mio parere qualche volta Telese in questo processo di beatificazione ci cade. E forse era inevitabile. Certo, fa forse perfino più male leggere quello che scrivevano alcune personalità storiche della sinistra (Dario Fo, Franca Rame, gli avvocati di Soccorso rosso come Spazzali e Pecorella, la testata Lotta continua di Sofri) per giustificare le uccisioni dei fascisti e per scagionare gli extraparlamentari di sinistra accusati degli omicidi. Fino a che, per fortuna, i tempi cambiano, e qualche politico e giornalista coraggiosi (il comunista Antonello Trombadori ai tempi di Acca Larentia, Giampaolo Pansa, Eugenio Scalfari, fino alla presa di posizione di Andrea Marcenaro di Lotta continua) cominciano a far notare che gli omicidi sono tali anche quando riguardano i fascisti e che la lotta armata è sbagliata a priori e destinata ad una impietosa sconfitta.
Personalmente, le storie che più mi hanno colpito sono quelle del rogo di Primavalle, dell'omicidio di Sergio Ramelli (anche per le implicazioni che mi riportano ai tempi dell'ultimo anno di liceo, quando furono arrestati e processati i suoi assassini), i fatti di Acca Larentia per l'assurdità soprattutto della morte di Stefano Recchioni, ma anche quella di Nanni De Angelis (un'altra morte assurda, forse addirittura per errore) e quella di Paolo Di Nella, l'ultimo della lista, per fortuna ventitre anni fa.

La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale

Bartolomé Bennassar, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale, Einaudi, 2006, p. XV-520, € 28,00.
Il 18 luglio di settant'anni fa (1936), con la ribellione dei militari (guidati dal generale Mola) al legittimo governo della Repubblica,  scoppiava la guerra civile spagnola, una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo. Quella di Bennassar è probabilmente la migliore opera tradotta in italiano su questa immane follia umana. Non che il libro sia immune da pecche, specialmente per il lettore normale, per chi non sia uno storico di professione o comunque un cultore appassionato anche alle statistiche. In alcune parti, infatti, per fortuna molto minoritarie, la mania per i numeri, benché funzionale, fa sfiorare la noia. Ma quella di Bennassar è un'impostazione rigorosa e mai partigiana, che si guadagna sul campo il rispetto di tutti i lettori. Ovviamente l'autore non manca mai di ricordare che i generali che alla fine vinsero la guerra insorsero contro un governo (del fronte popolare) che aveva legittimamente vinto delle elezioni democratiche, mentre il regime che uscì dalla guerra fu una dittatura che, con le debite differenze, somigliava molto al regime fascista italiano (che insieme ai nazisti tedeschi contribuirono in maniera decisiva alla vittoria dei ribelli). Meritoriamente, però, Bennassar mette anche in evidenza una delle ragioni fondamentali che causarono la sconfitta del fronte popolare e quindi la caduta della Repubblica, cioè le divisioni interne allo stesso Fronte. Non tutti lo sanno, ma queste divisioni (già evidenziate una decina d'anni fa da Ken Loach nel suo film Terra e libertà) furono sanguinose quanto la guerra ai fascisti: i comunisti spagnoli, che monopolizzavano i rifornimenti bellici sovietici, indispensabili per condurre la guerra, s'imposero e riuscirono ad estromettere dall'alleanza antifranchista forze importanti quali il POUM (il partito di estrema sinistra di cui facevano parte anche i trockisti invisi a Stalin) e gli anarchici, che proprio agli albori della guerra, per la prima volta nella storia, si ritrovarono al governo.
Questo La guerra di Spagna - che, sembra di capire, fu più che una tragedia nazionale, anche per i tanti stranieri che sull'uno e sull'altro fronte vi presero parte - è un'opera indispensabile per chi voglia sapere, senza pregiudizi da Pasionaria, cosa davvero produsse e cosa implicò questa grandissima catastrofe, nella quale rimasero coinvolti, in qualche modo, anche grandi intellettuali, come, solo per ricordarne alcuni, Federico Garcia Lorca (che vi perse la vita), Ernest Hemingway e George Orwell.
Una critica vorrei riservarla alla traduzione, quasi sempre puntuale, ma oscura in alcuni passaggi, come questo: «Nulla è più avvilente, per lo storico amante del vero, che non il potere di produrre danni prolungati nel tempo che esercitano le falsificazioni protette dal prestigio di un magistero intellettuale o spirituale». Forse troppa fretta di mandare il saggio in libreria in tempo per celebrare il settantesimo anniversario dello scoppio della guerra?
Nicholas Pileggi, Quei bravi ragazzi, Newton & Compton, 2006, pp. 295. € 8,90
la copertina dell'originaleQuei bravi ragazzi è un buon libro, scritto con schietto, ma non sciatto, stile giornalistico da Nicholas Pileggi, il quale, poco dopo l'uscita del romanzo, collaborò con Martin Scorsese alla sceneggiatura del film omonimo che il grande regista italoamericano ne trasse nel 1990, per le interpretazioni di Ray LiottaRobert De Niro e Joe Pesci, che compaiono ritratti in copertina. E proprio del film di Scorsese si rimpiange la geniale sintesi che ne fa una delle migliori opere cinematografiche degli anni novanta. Ma anche il libro di Pileggi, pur restando sempre fedele alla "fredda cronaca", riserva qualche geniale colpo d'ala, come nel finale, quando l'ormai "pentito" Henry Hill confessa di rimpiangere la bella vita che faceva quando era un "bravo ragazzo" (pp. 283-284): «Oggi tutto è diverso. Niente più azione, pericolo. Devo fare la fila come tutte le persone normali. Non sono più nessuno. Mi tocca vivere il resto della vita come un fesso qualunque».
«Tutto vero, tutto documentato, in questo libro secco e trascinante, dove Pileggi alterna, nel resoconto di una vita violenta, la sua voce a quella di Hill e signora. Senza omissioni e, soprattutto, senza indulgenze» (Ombretta RomeiPULP Libri #61 maggio-giugno 2006).
Consiglio: leggere il libro di Pileggi e vedere il film di Scorsese. O viceversa, non ha importanza.
P.S. Per quanto riguarda il bel film The Departed - Il bene e il male (2006) di Martin Scorsese, mi rimetto più o meno a quello che ne ha detto Fele sul suo brògghe, con l'avvertenza per quanti - ad esempio Emanuela Martini su Film TV - hanno scritto che l'ultimo film di Scorsese è un capolavoro, di riguardarselo bene: non lo è.

Piccolo grande uomo

Thomas Berger, Piccolo grande uomo, Fanucci, 2006, pp. 567, € 19,00.
piccolograndeuomoChi può non si perda questo capolavoro della letteratura americana, impreziosito, nell'edizione italiana, dalla stupenda traduzione di Luciano Bianciardi, che sa rendere scorrevole  la scrittura di un romanzo (pubblicato nel 1964) che è grande già di per sé. La storia è quella di Jack Crabb, personaggio inventato da Thomas Berger (Cincinnati, 1924), che si muove lungo la frontiera nel periodo in cui questa viene spostata sempre più a ovest, a danno delle popolazioni indigene, mano a mano emarginate nelle riserve, quando non addirittura scientemente sterminate. Berger ci racconta, attraverso l'ottica privilegiata di Jack Crabb, la nascita di una nazione appena uscita dalla Guerra di Secessione, con la fondazione di città oggi importanti come Denver, Colorado, sorte durante una delle molte corse all'oro. L'ottica del protagonista del romanzo è privilegiata, come dicevo, perché lui, bianco, a dieci anni si aggrega a una tribù di Cheyenne, gli "Esseri umani", come si definivano, che, per un malinteso (gli indiani volevano soltanto del caffè), ha ucciso suo padre. Crabb cresce con gli indiani, poi a sedici anni torna con i bianchi, dove viene adottato da un reverendo e dalla sua giovane e desiderabile moglie; qui Jack conosce l'amore, il tradimento e la disillusione (e conosce anche Lavender, uno schiavo negro liberato, che anela a vivere come i pellerossa). Jack, quindi, fugge di nuovo verso gli indiani, poi torna con i bianchi, sposa una bianca che viene rapita dagli indiani e poi tornato con questi, sposa un'indiana che viene uccisa dai soldati bianchi. Egli, dunque, vede il mondo con gli occhi del bianco e dell'indiano; non giudica né gli uni né gli altri, ma comprende che da questo scontro di civiltà (capita l'attualità del romanzo?) i pellerossa non potranno che soccombere: sono i bianchi che uccidono donne e bambini, non viceversa, e dopo ogni sconfitta, anziché sentirsi umiliati, tornano alla carica con forze sempre maggiori, e tradiscono la parola data agli indiani, infischiandosene dei trattati sottoscritti. Jack Crabb, durante la sua lunga vita (è lui stesso che la racconta a un giornalista, alla bella età di 121 anni), dice di avere incontrato alcune tra le leggende del West dal pistolero Wild Bill Hickock al generale Custer - al fianco del quale si trovò nella fatidica giornata del Little Big Horn - fino alla fuorilegge Calamity Jane: bugiardo o meno che fosse, nei primi 34 anni della sua vita fu guerriero Cheyenne, cercatore d'oro, truffatore, cacciatore di bisonti, giocatore di carte e mulattiere per l'esercito.
Ma oltre che il mito della frontiera, per la verità molto smitizzato dallo scrittore americano, conta questo personaggio Jack Crabb che, se non pensassi di incorrere in un pericoloso ossimoro, definirei un antieroe epico, e la scrittura di Thomas Berger, il quale in alcuni momenti delle quasi 600 pagine del romanzo, tocca vette di vera poesia, come quando narra la leggenda del guerriero Cheyenne Uomo Piccolo, che combatté contro i Serpenti anche privo della testa, o quando ci racconta della morte di Pellevecchia, che sembra quella di San Francesco.

Everyman

Philip Roth, Everyman, Einaudi, 2007, pp. 123, € 13,50.
la copertinaPhilip Roth ci narra, nel suo ultimo romanzo, di un uomo di 71 anni, che si rende conto di approssimarsi alla morte. Pezzo dopo pezzo se ne sta andando, così come, pezzo dopo pezzo, ha perso le persone che nella vita gli sono state più care. Alcune le ha perdute per colpa sua (in particolare le prime due mogli e i due figli maschi), altre per le vicissitudini della vita (gli amici e i colleghi, la figlia). E quest'uomo, l'uomo qualunque del titolo lasciato in originale, l'uomo senza nome, si sta avvicinando alla morte senza la consolazione della religione o della filosofia, e alla fine muore. Anzi, muore all'inizio, perché tutto il libro è raccontato come un lungo flashback post mortem, come nel film Viale del tramonto (1951) di Billy Wilder.
In Everyman Roth ha al suo attivo, come quasi sempre, alcune idee forti da proporre e una scrittura fluida e intelligente, che gli è unanimemente riconosciuta, sebbene non abbia ancora convinto i parrucconi di Stoccolma ad assegnargli un meritatissimo Premio Nobel per la Letteratura. Le idee forti di questo libro sono, a mio parere, il sentimento di tristezza per l'approssimarsi della morte, la necessità per gli anziani di convivere con gli acciacchi («la loro biografia coincideva ormai con le loro cartelle cliniche»), la nostalgia per quanto si poteva fare (il sesso, lo sport) e che con la vecchiaia non è più consentito, la perdita delle persone care, il rapporto di amore e al tempo stesso d'invidia per un fratello irraggiungibile in ogni campo. Purtroppo, però, questa volta Roth non riesce a dare una forma distesa e compiuta a questa materia, stiracchiando 123 pagine come in un riassuntino dei suoi personaggi passati o come nel teminoPhilip Roth di fine anno dello studente primo della classe che aspetta con impazienza le vacanze estive. Con Everyman (la copertina significativamente nera da cima a fondo) Roth non graffia, come aveva invece fatto in quel libro di terribile umanità e di meravigliosa riuscita letteraria che è Il teatro di Sabbath, limitandosi a scrivere un'autobiografia postuma di un uomo qualunque che tanto qualunque non è (ha tre matrimoni alle spalle, una carriera di pubblicitario di successo, donne allo schioccar di dita come Fonzie). Pur dichiarandosi devoto dello scrittore Saul Bellow, qui Roth non sa dare al suo romanzo l'ampio respiro di un libro cui Everyman mi ha rimandato spesso nel corso della lettura, e cioè Herzog (1964).
Il ritratto di quest'artista mancato da vecchio, un uomo solo, si riscatta nelle pagine intensissime e toccanti dedicate al rapporto di odio/amore e invidia/ammirazione per il fratello Howie.

I ragazzi del coro

Joseph Wambaugh, I ragazzi del coro, Einaudi, 2006, pp. 416, € 14,00.
Uscito in America nel 1975, il romanzo di Wambaugh è, nel suo genere, un piccolo capolavoro. Il titolo è quanto mai azzeccato, perché si tratta di un'opera corale, che si svolge all'interno di una squadra del servizio notturno della polizia di Los Angeles. Il valore del libro, già di per sé notevole sia dal punto di vista della critica sociale che da quello prettamente letterario (Wambaugh, ottimamente tradotto da Marina Valente, scrive benissimo), è accentuato dal film che ne trasse nel 1977 il pur bravo Robert Aldrich, dove il grottesco tragico del romanzo si trasforma in macchietta semicomica.  Il finale amarissimo del romanzo si degrada addirittura, nel film di Aldrich che porta lo stesso titolo del libro, ad una sorta di precursore del filone di Scuola di polizia. Ma al di là del confronto con il film di Aldrich, I ragazzi del coro versione romanzo di Wambaugh non può non lasciare nella memoria alcuni personaggi davvero indelebili, come il miles gloriosus ottuso e fascistoide Roscoe Rules (nomina sunt omina, si direbbe continuando a citare i nostri progenitori latini), il rozzo ma leale Balena Whalen (stupendo il gioco di parole e di nomi in versione originale, Spermwhale Whalen, che in italiano suonerebbe letteralmente Capodoglio, con la parola whale che significa appunto balena), che nel finale durissimo sarà costretto al gesto più umiliante della sua vita, il sensibile e colto Baxter Slate, laureato in materie classiche, nonché il paranoico Dean Pratt, con il tic di ripetere ossessivamente la frase "cosa vuoi dire?" e soprannominato appunto Cosavuoidire Dean (in inglese Whatdoyoumean Dean, e fa pure rima). E tutti costoro sono circondati da un ambiente sociale che è ben lontano dagli stereotipi che ci hanno mostrato per anni tanti film hollywoodiani, su un'America gaudente e felice: le menti dei giovani poliziotti (solo Balena e Spencer Van Moot superano i quarant'anni) sono segnate da divorzi, esperienze traumatiche nelle varie sezioni della polizia e dalla tragedia della guerra, l'ultima delle quali, quella del Viet Nam, appena terminata (ma il vecchio Balena ha preso parte anche alla Seconda Guerra Mondiale e alla Guerra di Corea).
Una lettura di buon intrattenimento, ma anche di grande intelligenza e valore letterario.

La scomparsa dei fatti

Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Il Saggiatore, 2006, pp. 316, € 15,00.
Per una strana coincidenza, il libro comincia e finisce in Ungheria, nell'arco di cinquant'anni. Travaglio apre con un magistrale saggio di giornalismo di Indro Montanelli, che racconta, quasi in diretta, la rivolta ungherese del 1956. Lo fa in maniera sofferta e autocritica, subito dopo avere detto tutto il male possibile, ed era tanto, della repressione sovietica. Un pezzo del miglior giornalismo, che dovrebbe essere la bibbia dei giovani giornalisti, altro che le redazioni del Foglio o del Tg4...
Ogni libro di Travaglio è una scarica di pugni nello stomaco del lettore, perché il bravo giornalista torinese ci fa una sorta di riassunto, accurato come non l'abbiamo mai letto, di fatti e misfatti che giornali e tv ci fanno fagocitare smussati di tutto quanto possa urtare il potente di turno, infarcendoli di commentibipartisan per rispettare la cosiddetta par condicio, che non scontenta i politici ma tiene all'oscuro di quanto succede l'ignaro cittadino.
Ma in questo caso, va detto, il libro di Travaglio è soprattutto una dolorosa autocritica dello stato del mestiere di giornalista in Italia, servo e succube di chi gli passa lo stipendio, e sempre in danno del cittadino che dovrebbe semplicemente essere messo al corrente di cosa accade nel mondo.
Da Mani pulite alla guerra in Iraq per arrivare a Calciopoli e Vallettopoli,Travaglio ci fornisce un inquietante e sconsolato ritratto del giornalismo italiano, troppo spesso complice dei politici e troppo spesso bugiardo verso i lettori dei giornali o gli spettatori dei TG. Con un ordine professionale tenerissimo nei confronti di chi sgarra, come, solo ad esempio, il giornalista di Libero Renato Farina, meglio noto come agente Betulla, al soldo del Sismi per diffondere notizie false in danno di politici avversari.
Una lettura come sempre indispensabile, sebbene sia da sconsigliare a chi soffra di mal di fegato.

Ali di piombo

Concetto Vecchio, Ali di piombo, BUR, 2007, pp. 291, € 9,40.
Come dice l'autore alla fine del libro, esso è, sostanzialmente, la storia dell'omicidio del giornalista della Stampa Carlo Casalegno, inserita nel contesto di quanto avvenne in quell'anno terribile di trent'anni fa.
Dalle occupazioni delle università (la prima a Palermo) per protestare contro la riforma Malfatti, si arriva all'agguato omicida di Casalegno (Torino, 16 novembre), passando per le tragiche morti di Francesco Lorusso (Bologna) e Giorgiana Masi (Roma), nonché per il rogo dell'Angelo Azzurro (Torino), dove vittime furono sempre dei giovanissimi. Per inquadrare meglio il clima del periodo, comunque, Vecchio ci racconta anche altre vicende, come quella della bolognese Radio Alice, chiusa dal governo all'indomani dei disordini seguiti al raduno contro la repressione in Italia, o quella del giornalista di Repubblica Carlo Rivolta, sopravvissuto agli anni di piombo, ma caduto vittima della droga.
Quello di Concetto Vecchio (non sempre nomina sunt omina) è un libro utile e non convenzionale, in quanto pone al centro della materia trattata il rapporto, molto sui generis, tra Carlo Casalegno, piemontese vecchio stampo, conservatore e taciturno, e il figlio Andrea, aderente a Lotta Continua, assalito dai dubbi di fronte alle violenze dei compagni dell'Autonomia Operaia e alle minacce ricevute dal padre a causa delle idee espresse sul giornale.
Personalmente, del 1977 ricordo la visita ai bisnonni sull'Appennino Tosco-Emiliano, fatta dopo diversi anni, e l'incontro con lo zio Mengo che, tartagliando, disse a Fele e a me «e... e... f-f-fate i bravi, eh?». Ricordo l'inizio della quinta elementare, dove non feci molto il bravo, ma soprattutto ricordo - strano a dirsi - una corsa ciclistica giovanile nella "strada di sotto": la vidi con il mio babbo, e, quando lo speaker chiamò alla partenza la classe 1967, lui mi disse «Questi hanno dieci annoni come te!».

Dottor Niù

Stefano Benni, Dottor Niù, Feltrinelli, 2007, pp. 155, € 6,00.

Uscito in prima edizione nel 2001con il sottotitolo Corsivi diabolici per tragedie evitabiliDottor Niù raccoglie i pezzi di Benni usciti su Repubblica nel periodo del primo governo ulivista, e in particolare tra la fine del 1998 (governo D'Alema) e i primi mesi del 2001 (governo Amato), quando la vittoria di Berlusconi alle successive elezioni politiche (una delle tragedie evitabili di cui al sottotitolo) appariva ormai scontata. La maggior parte dei pezzi sono piuttosto datati, se si pensa che sono stati tutti scritti prima dell'11 settembre 2001, e alcuni riferimenti - a ClintonEltsinMilosevic - sembrano arrivare da un'altra era geologica. Alcuni articoli, però, mantengono intatta la loro validità, e, nonostante che gli avvenimenti degli ultimi anni si susseguano a ritmi vertiginosi, anche grazie al moltiplicarsi delle televisioni satellitari, e quindi qualsiasi riferimento all'attualità rischi di essere inutilizzabile a distanza di pochi giorni, grazie alla maestria di Benni, sono ancora divertenti. Per brevità cito soltanto tre pezzi che secondo me sono tra le cose migliori: Natale a Monte Candido (20/12/2000), Confessione di un povero compagno (22/10/1998) e La Storia (31/12/2000). Benni, che è notoriamente di sinistra, in questo libro è bipartisan negli attacchi satirici a Berlusconi come a D'Alema, e ciò fa di Dottor Niù una lettura ancora godibilissima.



La Storia
Da "Storia d'Italia" di Gasparri, Previti e Storace. Testo per le scuole medie e superiori dell'anno 2010
Ai primi del Novecento un giovane pittore di nome Adolf Hitler, si accorse che la dittatura comunista stava cingendo d'assedio la Germania e il mondo. Dopo essere stato perseguitato dalla magistratura e incarcerato, scrisse un veemente saggio sulla superiorità della razza nordica, che lo rese assai popolare. Egli si recò con una piccola scorta militare in Polonia, per promuovere le sue idee. Subito l'Europa filocomunista e parcondicionista gridò all'invasione e lo attaccò. Hitler si difese eroicamente. Per evitare danni ai civili, evacuò alcune città e sistemò gli abitanti in centri di accoglienza quali Auschwitz e Buchenwald. Purtroppo il grande numero di persone causò disagi e carenze nell'accoglienza. La storiografia marxista, con la consueta enfasi settaria, bollò l'accaduto col termine "Olocausto". In realtà, anche se ci fu qualche eccesso da parte dei militari tedeschi, la vicenda è ancora così oscura che, per la sua delicatezza e la violenza di alcune immagini, il ministro dell'istruzione Rovagnati l'ha vietata ai minori di anni 18. Potrete eventualmente studiarla all'università se passerete l'esame delle "quattro i": (Internet, Impresa, Inglese e "ll papà mi dà trenta milioni per iscrivermi"). Dopo il presunto Olocausto, tutti si accanirono contro il povero Adolf. Egli affrontò con coraggio le armate staliniane, la lobby giudaica, i depravati inglesi e i sanguinari francesi. Ma alla fine fu travolto da un massiccio sbarco di extracomunitari in Normandia, favorito dalla politica lassista delle sinistre italiane. Intanto in Italia Benito Mussolini e altri carbonari, che avevano appoggiato il generoso sforzo liberista hitleriano, furono rovesciati da una congiura di partigiani sostenuti dalla magistratura. La dittatura comunista regnò per molti anni, con la collaborazione dei cattolici rossi, dei massoni e della lobby omosessuale. Uomini come Fanfani, Rumor, Scelba, e Taviani, tutti di stretta osservanza marxista, detennero a lungo il potere, e nelle scuole la propaganda stalinista cancellò ogni traccia di verità storica. Lo scoppio di una caldaia alla stazione di Bologna, sostenuto a lungo dal solo perseguitato Bruno Vespa, fu contrabbandato per strage, e così pure venne deviata la verità su Ustica (l'aereo scontratosi contro un sottomarino russo impazzito) e sul guasto meccanico dell' Italicus. Si giunse persino a dire che Hitler era dotato di un membro sotto la media, mentre invece… (vedi illustrazione pagina 145 in alto). Ma ecco irrompere sulla scena mondiale un giovane eroico lombardo, Silvio Berlusconi (vedi illustrazione pagina 145 in basso). Egli cantava in un piano-bar e non pensava alla politica, quando un giorno vide apparire, su un prato alla periferia di Milano, un angelo con la spada fiammeggiante che gli disse: "O unto da Dio, tu sei il prescelto: libererai l'Italia dai comunisti e diventerai ricco e famoso. Eccoti i fondi per fare tre televisioni". E di colpo Berlusconi si ritrovò pieno di monete d'oro. I magistrati persecutori gli chiesero a lungo come avesse fatto quei soldi così in fretta, ma dovettero arrendersi di fronte al miracolo. Nella cantina della sua modesta abitazione di Arcore, Silvio preparò la riscossa insieme a patrioti come Dell'Utri, Previti, Confalonieri e Pilo. Con pochi mezzi e coi i media tutti in mano al nemico bolscevico, riuscì a vincere le elezioni, ma il tradimento di un altro lombardo, Bossi, lo privò del giusto diritto a governare. La dittatura rossa tornò a opprimere l'Italia. I comunisti tolsero a Berlusconi ogni avere, tutte le televisioni e lo incarcerarono per lunghi anni. Silvio Berlusconi fu rinchiuso insieme a Silvio Pellico allo Spielberg, un castello appartenuto al produttore americano. Ma un giorno l'angelo fiammeggiante riapparve e liberò Berlusconi, che rivinse le elezioni a capo di un triumvirato. Questa volta non commise gli errori precedenti. Liquidò con un congruo assegno gli altri triumviri Bossi e Fini e divenne imperatore d'Italia col nome di Silviodoro primo. Sotto di lui la Fininvest e il paese godettero di un periodo di prosperità senza pari. Fu iniziato il ponte di Messina, per congiungere Messina a Reggio Emilia. Fu genialmente creato un milione di posti di lavoro licenziando un milione di vecchi lavoratori. La battaglia tra magistratura e mafia fu finalmente vinta, sconfiggendo la magistratura. Oggi nel 2010, il nostro paese è invidiato e temuto, anche se è tuttora accerchiato dai centri sociali, dall'Europa bolscevica e dai molli americani del primo presidente ex nero Michael Jackson. Ma l'imperatore Silviodoro si prepara a fare dell'Italia la più grande potenza del mondo libero. Le nostre truppe e le nostre parabole televisive hanno già conquistato la Svizzera, e dall'Austria del nostro alleato Kaiser Haider accerchiano Praga e puntano verso la Polonia. E stavolta, non falliremo.

La meravigliosa storia della repubblica dei briganti

Claudio Fracassi, La meravigliosa storia della repubblica dei briganti, Mursia, 2005, pp. 576, € 21,00.
Come già nella Lunga notte di Mussolini e in Matteotti e MussoliniFracassi utilizza la sperimentata tecnica che si richiama al montaggio cinematografico, e che era piaciuta nei libri precedenti dello scrittore-giornalista milanese. Qui si parla della Repubblica Romana - quella di Mazzini, Saffi e Armellini - che funzionò per centocinquanta giorni, tra il febbraio e il giugno del 1849, dopo l'inopinata fuga a Gaeta di Pio IX, avvenuta alla fine dell'anno precedente. Quello della Repubblica Romana fu un caso che sconvolse l'Europa intera, quella dei governi a cui si era rivolto il papa per essere restituito al suo trono di sovrano spirituale e temporale. Seguendo una scansione cronologica, Fracassi ci porta in giro per l'Europa, andando da Gaeta a Parigi e poi, a volo d'uccello sul Tirreno, indietro fino a Roma, dove la Repubblica, nel breve tempo che le fu concesso dalla Reazione, riuscì a sfornare una delle costituzioni più avanzate (dal punto di vista sociale e dei diritti civili) della storia. All'impresa concorsero, fra gli altri (oltre ai cittadini romani, ovviamente), alcuni tra i più bei nomi del patriottismo italiano, da Mazzini a Garibaldi, da Carlo Pisacane ai fratelli Dandolo, da Mameli a Emilio Morosini, considerati pericolosi briganti dall'Europa reazionaria di metà ottocento, ma eroi dalla nostra storia patria. La sorte della Repubblica, purtroppo, fu segnata dall'intervento di quella che i costituenti romani  consideravano una repubblica sorella, la Francia di Luigi Napoleone, formalmente ancora presidente, ma intimamente già avviato sulla strada del colpo di stato che lo avrebbe trasformato nell'imperatore Napoleone III. Il corpo di spedizione francese, inviato nell'ex Stato Pontificio al comando del generale Oudinot, riuscì, nonostante qualche iniziale batosta infertagli da Garibaldi, grazie al numero e alla potenza militare preponderanti, a restaurare Pio IX sul trono di papa re. Per assumere il ruolo di cerberi del papato, i francesi non si fecero scrupolo di utilizzare gli squallidi mezzucci che da sempre hanno macchiato di fango la reputazione di militari e diplomatici di carriera. E nel far questo sporcarono anche l'onore di persone perbene come Ferdinand De Lesseps, che qualche anno più tardi passerà alla storia per essere il promotore della realizzazione del Canale di Suez.
Sul terreno della Repubblica Romana fu versato il sangue di tanti giovani italiani, come Mameli, Manara, Emilo Dandolo e il già citato Morosini: ma quel sangue fu seme per la futura unità italiana. Sul papato (in primis, va da sé su Pio IX), però, non può che continuare a pesare, quel sangue, anche a distanza di più di un secolo e mezzo.
Ottimo Fracassi, che ci restituisce l'atmosfera e le passioni di quel periodo.

"Folgore" di morte e di omertà

Isabella Guarino e Corrado Scieri, "Folgore" di morte e di omertà, Kaos, 2007, pp. 260, € 16,00
mediaFolgoreIl 13 agosto 1999 il giovane allievo paracadutista Emanuele Scieri fu ucciso all'interno della caserma "Gamerra" di Pisa, dove era appena arrivato da Scandicci dove aveva sostenuto il C.A.R. I comandanti della Brigata "Folgore" - cui fa capo la Gamerra fornirono versioni più o meno fantasiose dei fatti, come il suicidio o la disgrazia del parà salito su una scala per telefonare con il cellulare. E questo, dopo che era stato rinvenuto il cadavere del giovane parà, tre giorni dopo la tragedia, perché fino a quel momento era stata avvalorata l'ipotesi della fuga volontaria dalla caserma. Il corpo di Scieri, infatti, fu trovato soltanto il 16 agosto. La prima cosa che viene spontaneo domandarsi è come sia possibile che per tre giorni non si trovi un cadavere all'interno di una caserma di paracadutisti, pur sapendo che il militare, quel 13 agosto, era rientrato dalla libera uscita (come risulta dai documenti della caserma). La risposta che si trae da quanto ci viene fornito nel libro è che per trovare bisogna voler cercare; è quando non si cerca, che raramente si trova.
Il libro in questione, che racconta questa assurda vicenda, è stato scritto dai genitori del povero Emanuele, e riporta, grazie soprattutto alla proposizione degli atti ufficiali delle inchieste - quella penale e quella militare - le incongruenze e le aporie che hanno condotto, giocoforza, a un nulla di fatto per quanto riguarda per quanto riguarda l'accertamento degli eventi di quel 13 agosto 1999. Entrambe le inchieste, infatti, si sono concluse con richiesta di archiviazione per l'ipotesi di omicidio preterintenzionale. E l'impressione che rimane è che esse siano state condotte con superficialità e indolenza (a dispetto della mole di accertamenti esperiti e persone interrogate), allo scopo, forse, di non scoperchiare un pentolone contenente episodi di nonnismo, dei quali, ai tempi della leva obbligatoria (e specialmente in corpi quali quello dei paracadutisti), sapevano anche le pietre.

Grande Sertão

João Guimarães Rosa, Grande Sertão, Feltrinelli, 2003, p. 499 € 13,00.

«Ma, in quello stesso giorno, sui nostri cavalli così buoni, percorremmo nove leghe. Nove. E in più altre dieci, fino al lago dell'Amarume. E sette per arrivare a una cascata nel Gorutuba. E dieci, facendo tappa tra Quem-Quem e Solidão; e molte marce: sempre sertão. Il sertão è questo; uno lo spinge indietro, ma di colpo quello torna a circondarti da tutte le parti. Il sertão è quando meno lo si aspetta; dico.» (p. 238)

Questo libro fu consigliato da Claudio Magris, al cospetto della cui autorità umilmente m'inchino, durante la trasmissione di Fabio Fazio, poco prima di Natale dell'anno scorso. Ipse dixitMagris disse che in questo libro c'è tutto: l'amore, l'avventura, la guerra, la morte. Ed è vero, ma che fatica! Considerato un capolavoro della letteratura del Novecento, definito l'Ulisse (nel senso di Joyce, ovviamente) della letteratura brasiliana, a me è sembrato piuttosto una sorta di Cent'anni di solitudine riscritto dal Gadda della Cognizione del dolore. È una lettura molto faticosa (la traduzione è piuttosto difficoltosa) che non sempre ripaga dello sforzo patito. Protagonista assoluto è il sertão, un ambiente petroso ma anche boscoso del nord est brasiliano, comprendente anche una parte dello stato meridionale del Minas Gerais. Narrato da Riobaldo, detto Tatarana, jagunço promesso sposo alla bella Otacilia, ma fortemente attratto dal compagno Diadorim, vissuto nel mito di capi leggendari come Joca Ramiro e Medeiro Vaz, il romanzo di Guimarães Rosa narra le avventure di queste bande di fuorilegge - giustizieri che scorrazzano per gli altipiani incorniciati tra sentieri e canali, come gli antichi paladini, in cerca di avventure. E dappertutto appare e scompare, con la sua fauna (anche umana) e la sua flora, il sertão, invadente e discreto al tempo stesso. Alla fine, come in tutti i buoni romanzi di formazione, il protagonista, passato anche attraverso la stipula di un patto col Diavolo, segnato dal dolore per la perdita di compagni e dell'amore della sua vita, avrà imparato la lezione. Il prezzo che, però, avrà pagato il lettore sarà molto più alto del valore acquistato. Insomma, se questo libro è stato caldamente consigliato dal grande critico, non è consigliato dal piccolo lettore.

Hot Kid

Elmore Leonard, Hot Kid, Einaudi, 2006, pp. 313, € 14,50

«Resto sempre meravigliato quando qualcuno mi viene a parlare di una certa idea in un mio libro. Certo, ci può essere un tema, ma io non me ne rendo conto, perché quando scrivo un romanzo lo faccio per scoprire cosa succede, per scoprire cosa fanno i personaggi» (Elmore Leonard, intervista a Fabio Zucchella su PULP #65)

Oklahoma, gli anni della Grande Depressione. Il giovane Carlos Webster ha - rivelatasi quando era ragazzino - la vocazione a diventare poliziotto, anzi: il poliziotto più famoso d'America. Il suo coetaneo Jack Belmont, figlio di un miliardario, mancandogli invece una vocazione, aspira a diventare il criminale più famoso d'America. Poi c'è la giovanissima Louly, aspirante fidanzata di Pretty Boy Floyd, notissimo criminale. E c'è, infine, Tony Antonelli, che rende immortali le gesta di poliziotti e criminali, diventando anch'egli stesso parte della leggenda.
Non lo so se Hot Kid sia il capolavoro di Elmore Leonard, essendo il primo romanzo dello scrittore americano che leggo. Di sicuro, posso dire che non mi sembra un capolavoro della letteratura. È anche vero che non amo particolarmente la letteratura noir, ma se un libro è scritto particolarmente bene ed esce dai confini del genere non esito ad apprezzarlo. Si tratta indubbiamente di un buon romanzo, teso e secco, particolarmente ben dialogato, che si legge bene dall'inizio alla fine, ma senza guizzi che facciano gridare al miracolo letterario. Del resto, come ammette lo stesso Leonard "io non faccio mai uso di metafore [...] soprattutto perché non sono capace di usarle bene". A parte il merito di essere un noir ben fatto, Hot Kid ha il merito - ma questa è una caratteristica di un po' tutti i romanzi, perfino di quelli di Moccia - di dirci qualcosa sulla società e sui tempi di cui parlano, in questo caso sull'America della Grande Depressione. In particolare sulla provincia americana, quella che generalmente non viene raccontata dal cinema hollywoodiano, quella che sta negli enormi spazi che stanno tra i due poli rappresentati da Los Angeles e New York. Qui si parla di una società, ancora profondamente colpita dal crack di Wall Street, ma beneficiata in alcuni possidenti fondiari dalla scoperta del petrolio che costruisce alcune improvvise fortune, gettando, però, alcuni figli di quest'America profonda nella confusione. Allo stesso tempo, si diffondono, in questa periferia americana, attraverso le riviste specializzate, le leggende sui grandi criminali che scorrazzano a bordo di automobili rapinando le banche (Dillinger, Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde), e sui poliziotti che danno loro la caccia. Al di là di questo, si può andare a vedere le caratteristiche dei singoli personaggi, le cause lontane ed i meccanismi che li spingono sulla strada che intraprendono. Il poliziotto Webster, ad esempio, è figlio di una cubana (morta quando lui era piccolissimo) e si porta dietro un nome, Carlos, che egli muta nel più anglofono Carl, ma è anche flglio di un uomo che da giovane è stato fuciliere, ed eroe, nella guerra ispanoamericana del 1898. Jack Belmont, figlio di un miliardario, non è accettato dalla propria famiglia, che lo ritiene responsabile dell'infermità che ha colpito la sorellina.
C'è da stigmatizzare la superficialità con la quale l'Einaudi ha mandato in libreria questo romanzo, con una serie di refusi quasi inspiegabili e, a memoria mia, senza precedenti per la casa editrice torinese. Soltanto tra pagina 72 e pagina 73, a parte un "affittava camere a di Kansas City", si assiste a un Joe Young che all'improvviso diventa Jim Young, all'età di Louly Brown che nel capitolo Cinque non quadra mai, a un Oris (Belmont) che una volta diventa Otis e un'altra, addirittura, Orin (e per fortuna che non si tratta di una donna), e alla località di Coalgate che si trasforma in Colgate, neanche fosse un dentifricio. In più, sia all'inizio che alla fine del romanzo, ci viene elargito un bel "dò" (prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo dare) di petto. Colpa del traduttore o meno, l'editore avrebbe dovuto controllare meglio.

Beati gli zoppi, perché essi parleranno (San Gimmi)

Federico Maria Sardelli - I MIRACOLI di PADREPIO - Mario Cardinali Editore srl, 2002, pp. 100, € 10,00
"Allora cera un uomme che mette 'na pentola di fagioli a i'ffuoche e poi guardava la tivvù che se ne dimentiche di guardare la pentola co'i faggiuole". A un uomo così sbadato sarebbe potuta capitare una disgrazia, ovviamente senza il provvidenziale intervento di Padrepio, sempre pronto a sventare le sciagure provocate da uomini sbadati e anche poco devoti. La narrazione dei miracoli di Padrepio fatta fatta da Federico Maria "Boria" Sardelli in questo libriccino, che porta come sottotitolo "che avvenettero veramende, potesse stiantare chi non ci crede. Ame.", comincia sempre, più o meno, così. Il Sardelli è un genio, ancora non pienamente riconosciuto. È un musicista di grande valore, direttore di un'orchestra barocca, addirittura nominato due volte ai Grammy Awards per le sue incisioni di musica antica. È anche un pittore affermato, che già a quattordici anni poteva vantare un'esposizione personale. Ed è conosciuto, almeno nella sua città natale - Livorno - come uno degli autori di punta del Vernacoliere di Mario Cardinali. Ma, a parte questo, va detto che il libro del Sardelli, già autore di almeno due opere fondamentali come Il Libro Cuore (forse) - un capolavoro, forse la migliore parodia di romanzo mai scritta - e Proesìe, fa stiantare (dal ridere non per scarsa fede nei miracoli del frate di Pietralcina). Ma la genialità dell'autore si vede anche dal rigore che mette nella postfazione, dove, con la precisione del filologo che dimostra anche nella sua professione di musicsta, ripercorre sinteticamente la storia della "santità" di Padrepio, mai riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa e dagli scienziati che aveva mandato ad esaminare il caso, fino alla frettolosa santificazione voluta da papa Wojtyla negli ultimi anni del suo pontificato. Un libro da leggere per ridere, ma, come succede con i testi dei veramente grandi, anche per pensare.

Agosto 1914

Aleksandr Isaevič Solženicyn, Agosto 1914, Club degli Editori, 1972, pp. 616.
A. Solzenicyn
Con tanta robaccia che esce nelle nostre librerie, non si capisce perché questo bellissimo libro sia da tanti anni fuori catalogo. Sono riuscito a leggerlo soltanto per caso, grazie a Elena, una mia collega, che possiede una copia di quest'opera, nell'edizione del Club degli Editori. Il romanzo costituisce il "primo nodo" di un ciclo intitolato La ruota rossa, che narra di eventi verificatisi durante quelli che per Solženicyn sono i momenti cruciali della storia russa (ma con conseguenza pesanti sull'intera storia mondiale). Agosto 1914 narra con più di 600 pagine gli eventi avvenuti sul fronte russo - tedesco in circa venti giorni, nei primi giorni seguiti allo scoppio della Grande Guerra. Solženicyn racconta, con la sua bella scrittura, ampia e forte, non priva di qualche venatura ironica (e resa perfettamente dall'eccellente traduzione di Pietro Zveteremich, una delle migliori che mi sia mai capitato di leggere), di personaggi storici, come il generale Samsonov e il Granduca Nicola, zio dello Zar e comandante in capo dell'esercito russo, ma inserisce nella narrazione figure immaginarie, come il colonnello Vorotyntsev, il tenente Charitonov e il caporale Blagodarev. E li descrive tutti nelle loro psicologie, mentre si muovono nello scenario della grande tragedia della guerra, con pagine suggestive ed emozionanti (quali la "passeggiata" di Vorotyntsev nelle trincee russe prese di mira dai bombardamenti dell'artiglieria tedesca, o quelle relative al suicidio del generale Samsonov, sconvolto per la disfatta dei Laghi Masuri), che però non rinunciano ad essere minuziose e documentatissime nella descrizione delle operazioni militari. Se un difetto c'è, in questo romanzo, è un'imperfetta opera d'amalgama tra le pagine belliche e quelle che si svolgono in uno scenario di pace, nelle città e nelle campagne lontane dal teatro di guerra, e che sono in parte dedicate ad una famiglia che si capisce adombrare quella avita dello scrittore. Letterariamente ispirato a Guerra e pace di TolstojAgosto 1914 non è emotivamente coinvolgente come All'ovest niente di nuovo di Remarque, ma costituisce senza dubbio un fondamentale tassello nella migliore letteratura ispirata alla Prima Guerra Mondiale.
Nel 1984 Solženicyn ha pubblicato il "secondo nodo" del ciclo, Novembre 1916, mentre nel 1986 è uscito Marzo 1917, "terzo nodo", e nel 1989 il "quarto nodo", Aprile 1917.

Fascisti rossi

Paolo Buchignani, Fascisti rossi, Mondadori, 2007, p. 316, € 9,80.
Qui si parla essenzialmente dei primi anni di vita (1947-1953) della rivista Pensiero Nazionale, che riunì, nel dopoguerra, una serie di personalità le quali, dopo la fine del fascismo, si accostarono ai partiti di sinistra e in particolare al PCI. Gli avversari politici li definivano "fascisti rossi", mentre essi preferivano chiamarsi "ex fascisti di sinistra". Capeggiati dal giornalista sardo Giovanni De Rosas, meglio conosciuto come Stanis Ruinas, i fascisti rossi che facevano capo al Pensiero Nazionale, sostenevano di avere aderito al Fascismo per le istanze che portava avanti originariamente: l'idea repubblicana, laica e di socializzazione delle risorse e dei mezzi di produzione. Propugnavano sostanzialmente un ideale socialista, sulla base della loro idea che Mussolini fosse un rivoluzionario di sinistra, i cui ideali furono traditi dai tanti gerarchi compromessi con il grande capitale. Ruinas ce l'aveva soprattutto con quei gerarchi che definiva "il Granducato di Toscana", quelli alla Ciano, per intenderci, che intesero l'adesione al Fascismo in funzione conservatrice. Dopo la guerra, Ruinas e i suoi sodali (per la maggior parte ex marò della Repubblica Sociale Italiana, come Lando Dell'Amico, Giampaolo Testa e Alvise Gigante) sentirono che, mentre il neonato MSI si spostava su posizioni conservatrici, filomonarchiche e filoatlantiche - andando ad abbracciare i tradizionali avversari dell'Inghilterra e degli Stati Uniti d'America -, le istanze tipiche del Fascismo delle origini erano ormai portate avanti soltanto dal blocco socialcomunista. Più o meno in segreto, dunque, gli aderenti alle ideee del Pensiero Nazionaleintavolarono trattative con Botteghe Oscure, di cui si fecero (come diceva senza mezzi termini lo stesso Ruinas) fiancheggiatori nelle campagne elettorali e politiche in genere. La presa di posizione di redattori e simpatizzanti del Pensiero Nazionale non fu certo dovuta a ragioni opportunistiche, poiché è un dato di fatto che essi scontarono anni di solitudine politica e non soltanto politica; alcuni di loro, in primis Ruinas medesimo, furono anche incarcerati  e comunque sempre tenuti sotto controllo dalla polizia del Ministro degli Interni Mario Scelba. Quello che chiedevano Ruinas e soci era in sostanza una sorta di riconoscimento del loro essere sempre stati dalla parte delle forze lavoratrici, anche quando, sbagliando in buona fede, avevano ritenuto che le istanze delle classi più deboli fossero rappresentate dal Fascismo. La rivista Pensiero Nazionale fu pubblicata fino al 1977 (Ruinas morì a Roma nel 1984), ma già dopo le elezioni politiche del 1953, quelle della famosa "legge truffa", con la cessazione della collaborazione con il PCI di Togliatti, essa aveva cessato la sua funzione storica, quella di "traghettare" i repubblichini verso i partiti di sinistra.
Il saggio di Buchignani è molto interessante e documentato, anche se inevitabilmente indirizzato ad un pubblico se non di addetti ai lavori, quanto meno di iniziati delle vicende politiche del nostro paese.