sabato 28 gennaio 2012

Hot Kid

Elmore Leonard, Hot Kid, Einaudi, 2006, pp. 313, € 14,50

«Resto sempre meravigliato quando qualcuno mi viene a parlare di una certa idea in un mio libro. Certo, ci può essere un tema, ma io non me ne rendo conto, perché quando scrivo un romanzo lo faccio per scoprire cosa succede, per scoprire cosa fanno i personaggi» (Elmore Leonard, intervista a Fabio Zucchella su PULP #65)

Oklahoma, gli anni della Grande Depressione. Il giovane Carlos Webster ha - rivelatasi quando era ragazzino - la vocazione a diventare poliziotto, anzi: il poliziotto più famoso d'America. Il suo coetaneo Jack Belmont, figlio di un miliardario, mancandogli invece una vocazione, aspira a diventare il criminale più famoso d'America. Poi c'è la giovanissima Louly, aspirante fidanzata di Pretty Boy Floyd, notissimo criminale. E c'è, infine, Tony Antonelli, che rende immortali le gesta di poliziotti e criminali, diventando anch'egli stesso parte della leggenda.
Non lo so se Hot Kid sia il capolavoro di Elmore Leonard, essendo il primo romanzo dello scrittore americano che leggo. Di sicuro, posso dire che non mi sembra un capolavoro della letteratura. È anche vero che non amo particolarmente la letteratura noir, ma se un libro è scritto particolarmente bene ed esce dai confini del genere non esito ad apprezzarlo. Si tratta indubbiamente di un buon romanzo, teso e secco, particolarmente ben dialogato, che si legge bene dall'inizio alla fine, ma senza guizzi che facciano gridare al miracolo letterario. Del resto, come ammette lo stesso Leonard "io non faccio mai uso di metafore [...] soprattutto perché non sono capace di usarle bene". A parte il merito di essere un noir ben fatto, Hot Kid ha il merito - ma questa è una caratteristica di un po' tutti i romanzi, perfino di quelli di Moccia - di dirci qualcosa sulla società e sui tempi di cui parlano, in questo caso sull'America della Grande Depressione. In particolare sulla provincia americana, quella che generalmente non viene raccontata dal cinema hollywoodiano, quella che sta negli enormi spazi che stanno tra i due poli rappresentati da Los Angeles e New York. Qui si parla di una società, ancora profondamente colpita dal crack di Wall Street, ma beneficiata in alcuni possidenti fondiari dalla scoperta del petrolio che costruisce alcune improvvise fortune, gettando, però, alcuni figli di quest'America profonda nella confusione. Allo stesso tempo, si diffondono, in questa periferia americana, attraverso le riviste specializzate, le leggende sui grandi criminali che scorrazzano a bordo di automobili rapinando le banche (Dillinger, Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde), e sui poliziotti che danno loro la caccia. Al di là di questo, si può andare a vedere le caratteristiche dei singoli personaggi, le cause lontane ed i meccanismi che li spingono sulla strada che intraprendono. Il poliziotto Webster, ad esempio, è figlio di una cubana (morta quando lui era piccolissimo) e si porta dietro un nome, Carlos, che egli muta nel più anglofono Carl, ma è anche flglio di un uomo che da giovane è stato fuciliere, ed eroe, nella guerra ispanoamericana del 1898. Jack Belmont, figlio di un miliardario, non è accettato dalla propria famiglia, che lo ritiene responsabile dell'infermità che ha colpito la sorellina.
C'è da stigmatizzare la superficialità con la quale l'Einaudi ha mandato in libreria questo romanzo, con una serie di refusi quasi inspiegabili e, a memoria mia, senza precedenti per la casa editrice torinese. Soltanto tra pagina 72 e pagina 73, a parte un "affittava camere a di Kansas City", si assiste a un Joe Young che all'improvviso diventa Jim Young, all'età di Louly Brown che nel capitolo Cinque non quadra mai, a un Oris (Belmont) che una volta diventa Otis e un'altra, addirittura, Orin (e per fortuna che non si tratta di una donna), e alla località di Coalgate che si trasforma in Colgate, neanche fosse un dentifricio. In più, sia all'inizio che alla fine del romanzo, ci viene elargito un bel "dò" (prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo dare) di petto. Colpa del traduttore o meno, l'editore avrebbe dovuto controllare meglio.

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