venerdì 20 gennaio 2012

Henry Fielding, Joseph AndrewsGarzanti, 2003, pp. XX-394, € 12,00. È il primo vero romanzo di Fielding (1797-1754), con il quale lo scrittore intendeva costruire una narrazione parallela, o quanto meno collaterale, a quella della “Pamela” di Richardson, già parodizzata con il precedente libello“Shamela”. L’intento di Fielding è indubbiamente etico, ma lo scrittore sta bene attento a non scadere nel moralismo, difetto che rimproverava al “rivale” Richardson. Così come si guarda bene dal ridurre i propri personaggi al livello di caricature, pur utilizzando l’ironia come strumento principale per raccontare le vicende dei propri personaggi. Riguardo ai quali, non si può negare che la descrizione di taluni sconfini nella macchietta, difetto imputabile alla non ancora raggiunta maturità autoriale dello scrittore, quale sarà ravvisabile nel suo capolavoro “Tom Jones”. Se, infatti, quest’ultimo romanzo è, per fare una metafora, grande teatro, il “Joseph Andrews” è ancora opera dei pupi. Ma l’abilità di Fielding, già ben visibile, consiste, come quella di ogni grande Autore, nel trasformare le vicende, anche mediocri, dei propri personaggi, in storie universali, comprensibili in ogni epoca ed a qualsiasi latitudine. E proprio il teatro classico (penso, ad esempio, a quello di Terenzio), con le sue agnizioni, talvolta sorprendenti, talaltra prevedibili, costituisce una delle principali fonti d’ispirazione di Fielding, insieme al romanzo picaresco e al “Don Chisciotte” (esplicitamente citato) e alla pittura “satirica” di William Hogarth (1697-1764), amico personale dello scrittore di Sharpham. Per certi snodi della trama, dal matrimonio osteggiato agli incapricciamenti del nobilastro di turno (qui, soprattutto, una donna), dai rapimenti della fanciulla protagonista agli interventi di avvocati azzeccagarbugli e di religiosi più simili a un padre Cristoforo che a un don Abbondio, ma anche per la dose di satirica ironia,“Joseph Andrews” non può non venire alla mente quale una delle fonti ispiratrici del Manzoni per “I promessi sposi”. Sugli intenti morali dell’autore, sulle intrinseche vicende narrate, su queste considerazioni, domina comunque la scrittura brillante ed accattivante di Fielding.

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