Enrico Fedrighini, Moby Prince, un caso ancora
aperto, Edizioni Paoline, 2005
Leggere un libro sul disastro (non si sa bene
nemmeno come chiamarlo: tragedia? strage?) del traghetto Moby Prince in
servizio di linea tra Livorno e Olbia, anche a 25 anni di distanza dal fatto,
costituisce l'ennesima mazzolata sulla convinzione di vivere in un paese
democratico e, soprattutto, sovrano.
Nell'immediatezza degli avvenimenti, i media
concentrarono le spiegazioni del disastro essenzialmente su due fattori: la presenza
di una fitta nebbia e la disattenzione umana, con il dire che l'equipaggio era
intento a guardare la partita di calcio in TV, trovando in questo modo una
concausa nell'evento atmosferico e nella proverbiale cialtroneria di noi
italiani. Ma se nel mistero fitto che avvolge i fatti della tragica sera del 10
aprile 1991 c'è una certezza, questa è che nelle ore e nei minuti che
precedettero il disastro non c'era nebbia sulla rada del porto di Livorno,
teatro dell'incidente. Altra certezza, quanto meno ragionevole, è che al
momento dell'impatto tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo
l'equipaggio (né nessun altro a bordo del traghetto) stava guardando la
partita. Fedrighini fornisce tutte
le prove di questi due fatti, prove che peraltro erano già presenti agli atti
delle indagini e dei processi.
C'è quasi da vergognarsi a sintetizzare un libro
come questo (edito dalle Edizioni Paoline!) in poche righe, anche perché gli
scenari ipotizzati dall'autore nella seconda parte dell'inchiesta sono talmente
foschi da perderci la testa: se ne possono trarre alcune conclusioni, tra le
quali che gli italiani non sono mai tanto efficienti come quando c'è da
depistare le indagini della magistratura. Di fatto, il 10 aprile 1991 le cose
non andarono come sono state raccontate anche nei processi penali: e se sono stati
mantenuti tanti segreti, se sono state operate tante manomissioni sulle prove,
se no sono state fatte alcune indagini essenziali (per esempio l'autopsia sul
cadavere meglio conservato di tutto il traghetto), se molti testimoni hanno
dichiarato il falso, anche contraddicendo spudoratamente sé stessi, deve
esserci per forza qualcosa da nascondere. Perché, altrimenti, lasciar morire
140 persone (su 141: si salvò soltanto il giovane mozzo Alessio Bertrand) a
bordo di una nave in fiamme, senza neanche tentare di salvarle? E perché le
autorità statunitensi, che a pochi chilometri dal porto di Livorno hanno
l'importantissima base di Camp Darby, sostengono addirittura di non avere alcun
radar che tenga sotto controllo quanto avviene nel porto di Livorno?
Sono tante le ragioni che impongono di leggere il
libro di Fedrighini (che è del 2005)
e quelli di altri autori che si sono interessati alla tragedia, come
recentemente la giornalista del Tirreno
di Livorno Elisabetta Arrighi, affinché
almeno i parenti delle 140 vittime abbiano una risposta su come e perché quelle
persone che dovevano risvegliarsi ad Olbia sono invece bruciate su un traghetto
arroventato a due miglia dalla costa toscana.
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