lunedì 16 maggio 2016

Enrico Fedrighini, Moby Prince, un caso ancora aperto

Enrico Fedrighini, Moby Prince, un caso ancora aperto, Edizioni Paoline, 2005

Leggere un libro sul disastro (non si sa bene nemmeno come chiamarlo: tragedia? strage?) del traghetto Moby Prince in servizio di linea tra Livorno e Olbia, anche a 25 anni di distanza dal fatto, costituisce l'ennesima mazzolata sulla convinzione di vivere in un paese democratico e, soprattutto, sovrano.
Nell'immediatezza degli avvenimenti, i media concentrarono le spiegazioni del disastro essenzialmente su due fattori: la presenza di una fitta nebbia e la disattenzione umana, con il dire che l'equipaggio era intento a guardare la partita di calcio in TV, trovando in questo modo una concausa nell'evento atmosferico e nella proverbiale cialtroneria di noi italiani. Ma se nel mistero fitto che avvolge i fatti della tragica sera del 10 aprile 1991 c'è una certezza, questa è che nelle ore e nei minuti che precedettero il disastro non c'era nebbia sulla rada del porto di Livorno, teatro dell'incidente. Altra certezza, quanto meno ragionevole, è che al momento dell'impatto tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo l'equipaggio (né nessun altro a bordo del traghetto) stava guardando la partita. Fedrighini fornisce tutte le prove di questi due fatti, prove che peraltro erano già presenti agli atti delle indagini e dei processi.
C'è quasi da vergognarsi a sintetizzare un libro come questo (edito dalle Edizioni Paoline!) in poche righe, anche perché gli scenari ipotizzati dall'autore nella seconda parte dell'inchiesta sono talmente foschi da perderci la testa: se ne possono trarre alcune conclusioni, tra le quali che gli italiani non sono mai tanto efficienti come quando c'è da depistare le indagini della magistratura. Di fatto, il 10 aprile 1991 le cose non andarono come sono state raccontate anche nei processi penali: e se sono stati mantenuti tanti segreti, se sono state operate tante manomissioni sulle prove, se no sono state fatte alcune indagini essenziali (per esempio l'autopsia sul cadavere meglio conservato di tutto il traghetto), se molti testimoni hanno dichiarato il falso, anche contraddicendo spudoratamente sé stessi, deve esserci per forza qualcosa da nascondere. Perché, altrimenti, lasciar morire 140 persone (su 141: si salvò soltanto il giovane mozzo Alessio Bertrand) a bordo di una nave in fiamme, senza neanche tentare di salvarle? E perché le autorità statunitensi, che a pochi chilometri dal porto di Livorno hanno l'importantissima base di Camp Darby, sostengono addirittura di non avere alcun radar che tenga sotto controllo quanto avviene nel porto di Livorno?

Sono tante le ragioni che impongono di leggere il libro di Fedrighini (che è del 2005) e quelli di altri autori che si sono interessati alla tragedia, come recentemente la giornalista del Tirreno di Livorno Elisabetta Arrighi, affinché almeno i parenti delle 140 vittime abbiano una risposta su come e perché quelle persone che dovevano risvegliarsi ad Olbia sono invece bruciate su un traghetto arroventato a due miglia dalla costa toscana.

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